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La mia identità è nel mio cuore

Published on

Story by

Lea Sauer

Translation by:

Silvia Godano

Lifestyle

Sono più tedesca di un Vichingo all'Oktoberfest, con un Bratwurst e un boccale di birra in mano. Perlomeno sulla carta. La mia famiglia vive da generazioni su questo fazzoletto di terra, da qualche parte, nel bel mezzo della Germania. Queste sono le mie radici. Punto. Punto?

Una regione che, quanto a superficie, è poco più estesa di New York. Tutt'attorno, soltanto boschi. Ogni tanto, un villaggio in mezzo ai campi. Questa è la mia patria, il luogo da cui provengo. Viviamo nel Siegerland da sempre. Io ci vivo da 27 anni. Con qualche interruzione. «Siete chiusi e scontrosi», viene detto e ripetuto alla gente che abita la regione, «non avete il senso dell'umorismo».  

Noi, questa chiusura, la chiamiamo lealtà: quando hai un amico, allora è per sempre. Il nostro umorismo, sì, è piuttosto insipido. È così. Io dico che non sono un tipico abitante del Siegerland. I miei genitori sono troppo disorganizzati, per non essere considerati degli hippy cosmopoliti. Da quando sono in grado di formulare dei pensieri, mi sento diversa dagli abitanti di questa regione. Non mi sono mai sentita radicata in questo posto. Non vi appartengo. A dirla tutta, non mi sono mai sentita neppure veramente tedesca. Forse europea? No,  troppo grossa, troppo astratta. Anche se, nel mio viso, si può riconoscere un'intera unione europea. 

Di un po', da dove vieni davvero?

Gli altri chiedono: «Di un po', da dove vieni?» Questo è il modo in cui conosco nuove persone. Funziona così: 

«Di un po', da dove vieni?»

«Dalla Germania»

«No... davvero. Intendo, da dove vieni realmente?»

«Beh... di qui - Siegerland.»

«E i tuoi genitori?»

«Sono di qui»

Non capisco. Dopo queste risposte, nella maggior parte dei casi, i miei interlocutori sono innervositi, oppure perdono le staffe. Come quella volta che quel tedesco-turco non riusciva a credere che io non fossi greca, e, dopo quindici minuti di animata conversazione, affermò che tutto sommato ero piuttosto ok, per essere greca. Qualcun altro crede che la mia sia civetteria, come quell'italiano dai pantaloni troppo stretti, che recentemente mi ha detto che il mio stile francese piace molto, a lui che è italiano. Et voilà, ha subito creduto di riconoscere le mie radici francesi, semplicemente perché non sembro tedesca: «dai, finiscila con questi giochetti! Su! Ammettilo!».  

Ciò che conta è sempre e solo l'apparenza?

Occhi neri, capelli scuri e carnagione abbronzata. Questo sembra dunque sufficiente per vedersi appioppato un background internazionale. Una bella merda, a dire il vero. Tutto ciò dimostra soltanto quanto gli stereotipi siano ancora radicati negli immaginari della gente, quanto l'aspetto esteriore sia e rimanga indice di un'identità. 

Naturalmente, l'identità si costruisce soprattutto attraverso l'appartenenza a un determinato gruppo. Ma l'appartenenza si deve determinare per forza in base all'aspetto esteriore? O attraverso una nazione? Non potrebbe accadere che l'identità si costruisca attraverso le persone con le quali stabiliamo dei contatti? Amici, famiglia, colleghi. Non ha importanza quali di questi. 

Non credo che siano i luoghi nei quali ci troviamo a plasmare la nostra identità, ma piuttosto le persone, che entrano in contatto con noi e ci influenzano. Nel corso dei miei spostamenti, ho stretto molte amicizie internazionali - Finlandia, Israele, Francia -  tutte diverse, eppure da ognuno ho imparato molto.  Soprattutto riguardo a me stessa. E questo attraverso discussioni su temi importanti, non sugli stereotipi. 

Credo che spesso la discussione sull'identità divenga un tema facile, sul quale fare due chiacchiere leggere, e questo è snervante. Perché le chiacchiere leggere sono snervanti. Significa che non ci interroghiamo davvero sulle cose, perché vogliamo conoscere qualcosa o qualcuno sul serio. Significa che parliamo semplicemente per dire qualcosa, senza voler capire davvero gli altri.  «Ahah, sì... tu, in quanto inglese, sei così e cosà» e fine. Credo che l'Eurogenerazione sia un mito urbano che serve a dare una patria, l'Europa, a quelle anime sradicate come la mia, che non si sentono a casa in nessun luogo. Se non ci fosse questo mito, bisognerebbe accettare di non riuscire a identificare né gli altri né se stessi e non sarebbe così semplice. Bisognerebbe lasciare i cassetti chiusi una volta tanto, piuttosto che cambiare semplicemente l'armadio. Questo sarebbe apertura e franchezza. 

Home's where your friends are

Il punto è che più viaggio, più mi allontano e più persone conosco, tanto più ritorno alle mie radici, in una foresta nella Germania centrale. 

Torno dalla mia famiglia, indietro fino all'infanzia nella provincia, quando trascorrevo giorni interi a costruire - e poi abbattere - la solita diga sul solito ruscello dietro casa. La patria. Questo ha però soltanto limitatamente a che fare con la regione nella quale mi trovavo, ma piuttosto con la mia famiglia e le persone che ho incontrato. La mia infanzia è più simile a quella della mia amica finlandese, o a quella della mia amica isrlaeliana, trascorsa in uno dei Kibbutz nei pressi di Tel Aviv, piuttosto che a quella di  un qualsiasi marmocchio berlinese, perché le mie amiche sono cresciute in famiglie simili alle mie, altrettanto aperte. Patria è dove si trova il tuo cuore. È una sensazione, che si porta con sé. "Identity is where your heart is". Identità è là, dove è la mia gente, non una regione, una nazione, un continente. Questo è ciò che conta. 

Story by

Translated from My heart's my Heimat und Identität ist mein Zuhause