Al Sadr, un europeo a Bagdad
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Quel filo rosso che lega il terrorismo iracheno all’Iran. E l’Iran e ai suoi “clienti” europei.
La coalizione multilaterale che ha brillantemente condotto le operazioni militari in Iraq poco più di un anno fa, non riesce a gestire la pace e la pacificazione dell’Iraq con la stessa abilità.
Le sviste di Washington
Danielle Pletka dell’American Enterprise Institute ha identificato i più gravi errori commessi sull’arduo sentiero della democratizzazione irachena. Il primo: considerando che il governo che entrerà in carica il 30 giugno è guidato da un ex-leader-in-esilio con forti legami con gli Stati Uniti e poco séguito nel Paese come Iyad Allawi, cosa impediva di effettuare il passaggio di consegne il 10 aprile del 2003? C’era bisogno di un anno per scoprire le doti taumaturgiche di una quindicina di donne e uomini con un minimo di rappresentatività?
Il secondo errore commesso riguarda la credibilità agli occhi degli iracheni della politica condotta dalla coalizione in Iraq. Non si può annunciare la deba’atificazione e condannare Muqtada al Sadr per omicidio, per poi mandare ex generali con i baffoni à la Saddam a trattare con quel criminale scatenato. Non si possono abbandonare a se stessi i curdi - i migliori alleati dell’occidente ed i peggiori nemici di Saddam, prima, durante e dopo il conflitto - mettendo in discussione la natura federale del nuovo Stato iracheno.
Il terzo errore è di natura strategica più generale. Troppo spesso ampi settori dell’amministrazione americana, in particolare nel Dipartimento di Stato, hanno sottovalutato quella che Michael Ledeen ha chiamato, sulle colonne del Wall Street Journal, la “mano iraniana”. E’ ormai chiaro, infatti, che la guerra in Iraq è in realtà una guerra regionale in cui tutti gli attori della regione, a cominciare dalla Siria e dall’Iran, cercano di imporre il proprio gioco. Come dimostra il dibattito interno al Consiglio Governativo iracheno, riportato lo scorso 6 aprile dal giornale londinese Al-Hayat. Il terribile Muqtada al Sadr ha recentemente incontrato in Iran Hashemi Rafsanjani ed altri gerarchi della “rivoluzione islamica” ed è direttamente finanziato dall’Ayatollah al-Haeri, uno dei più importanti alleati del supremo leader della rivoluzione Ali Khamenei.
Quella zapaterata alla credibilità europea
Fortunatamente tutti questi errori, pur gravissimi, possono essere risolti e condurre in porto l’operazione di regime change in Iraq. Fortunatamente George Bush e la sua amministrazione ci credono ancora, insieme ad alcuni settori dell’opposizione democratica americana capeggiati dai senatori Joe Lieberman, Evan Bayh e Joe Biden e contro le frange isolazioniste della destra repubblicana. Sfortunatamente le soluzioni attualmente al vaglio della politica europea sembrano fuori di senno piuttosto che fuori dalla Storia, come direbbe Robert Kagan.
L’ironia della Storia ha voluto che il rientro in Spagna dall’Iraq dell’ultimo soldato di Zapatero avvenisse nemmeno venti giorni prima dell’approvazione all’unanimità della risoluzione 1546 sulla transizione irachena. La decisione del premier spagnolo - preannunciata in fretta e furia, prima della proclamazione ufficiale dei risultati delle elezioni, senza nessun dibattito pubblico ed istituzionale – sarà servita ad appagare le sinistre folle che troppo spesso affollano le piazze europee, ma non ha dato alla Spagna ed all’Europa più “peso” e non ha alleviato nessuno dei problemi che affliggono la vita dell’iracheno medio.
Una ONG chiamata Ue
Negli stessi giorni, la Commissione europea rendeva pubblico il documento sui rapporti tra l’Unione europea ed il nuovo Iraq, ricordando i tempi di Saddam in cui non esistevano relazioni “contrattuali” con il dittatore, ma solo significative “relazioni commerciali”: incredibili diplomazie verbali che nascondono anni di connivenza con il più sanguinario e “giacobino” dei satrapi mediorientali. In ogni caso, al di là di banali quanto scontati obiettivi – quali “l’interesse europeo per un Iraq sicuro, stabile, democratico e prospero” – le azioni che l’Unione europea intende perseguire nell’immediato non vanno oltre il sostegno alle prossime elezioni, il dialogo politico informale con il nuovo Governo iracheno e l’apertura di un ufficio a Baghdad. Una serie di attività che avvicinano la politica estera dell’Unione europea più alla normale amministrazione di una qualsiasi grossa e disorganizzata ONG che ad una entità dotata di un minimo di vitalità ed efficacia politica.
Dopo l’accordo in sede Onu sulla transizione a Baghdad e sui poteri del nuovo governo iracheno ad interim l’Unione europea non può accontentarsi di un ruolo marginale. Se elezioni ci saranno, come elezioni ci saranno nel prossimo gennaio, è necessario costruire una autentica “società civile” in Iraq, con veri partiti e vere associazioni, diffondendo la conoscenza delle regole del gioco democratico. Gli attuali clivages politici in Iraq sono lo specchio dell’Iraq di Saddam, che non esiste più. Oggi, inoltre, le decine di divisioni settarie e tribali diventano il miglior strumento per le “mani” iraniane e wahabite di destabilizzazione “a costo zero” di una possibile, fragile e pericolosa democrazia.
Più Europa in Medio Oriente
E proprio per ridurre a zero il rischio di radicalizzazione iraniana della nuova politica irachena, l’Unione europea deve capire che la guerra in Iraq si vince e si concluderà a Teheran. Ogni mano data dagli europei ai cosiddetti riformisti iraniani è stato un atto di sabotaggio delle elites moderate irachene anti Saddam ed anti Al-Sadr. Ogni mano data ai conservatori in tema di energia nucleare è un’ipoteca sulla stabilità futura della regione. Ogni mano europea che firma accordi di cooperazione con Teheran è una mano che si aggiunge alle mani che guidano le azioni terroriste contro i peace keepers americani ed europei a Falluja, Nassirija, Najaf e Baghdad. Ogni passo verso un rapido regime change a Teheran abbrevierà l’arduo sentiero verso la democrazia irachena. Ed oggi un regime change a Teheran è a portata di mano. Senza necessità di impiego di forze militari, di cui l’Europa non dispone, tra l’altro. In Iran esiste una massa critica di cittadini filodemocratici che hanno bisogno dell’aiuto di un Europa che oggi coopera con gli oppressori. Questo aiuto possono essere due o tre canali televisivi in lingua farsi liberi dalla censura del regime. Potrebbe essere questa la mano invisibile di un’Europa finora davvero troppo invisibile.