Verso un’Europa “due in uno”
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monica palmeriLa potete anche pensare diversamente, ma l’Unione Europea è un grande successo. Fatto sta che, per fare in modo che continui, c’è bisogno di una riforma economica e di una notevole apertura. Mentale, e non solo.
L’Unione Europea ha fatto sì che quei Paesi permalosi che per millenni hanno combattuto l’uno contro l’altro, abbiano imparato in meno di cinquant’anni ad interagire tra di loro in modo pacifico e comunitario sulla scena mondiale. Sostituendo l’armatura e la lancia dei campi di battaglia con sporadiche ed accese discussioni in seno al Consiglio Europeo. Ancora, l’Unione Europea ha rappresentato un motore di prosperità per l’Europa, risollevando milioni di famiglie dalla povertà del dopoguerra ed inquadrandole in quel benessere economico della classe media che oggi molti europei considerano una sorta di “diritto naturale”. Non si tratta di un’esagerazione. È un dato di fatto. L’Unione Europea ha infatti creato le premesse per una rapida crescita economica, che dura da più di trent’anni, e permesso inoltre all’Europa di rivestire il ruolo di protagonista sulla scena mondiale. E non solo in campo economico, ma anche politico e sociale.
Allargamento, un punto a favore per l’economia
È triste, allora, che nel momento di massima affermazione dell’Europa – ovvero quando il
progetto europeo ha portato ad un’unità che nemmeno Carlo Magno avrebbe potuto immaginare – le voci di un ulteriore allargamento abbiano improvvisamente generato un atteggiamento difensivo nei Paesi dell’Unione. È ancora più triste che quelle stesse problematiche affrontate e superate dai padri fondatori dell’Europa – ad esempio la paura che un ulteriore allargamento del Mercato Unico avrebbe condotto ad un rapido declino, o che la solidarietà manifestata ai “vicini poveri” si sarebbe potuta, in qualche modo, tradurre in una minaccia alla prosperità di quelli ricchi – siano improvvisamente tornate a galla.
Forse vale la pena prendere in considerazione alcuni concetti basilari. Il successo dell’Europa è dovuto principalmente alla scelta di un’economia basata sull’idea di mercato comune. Ma sono in molti, oggi, ad aver dimenticato che quel tipo di economia si fonda su due pilastri: l’aspetto sociale e quello economico. La storia è piena di esempi che mostrano come il tentativo di realizzare un’economia basata esclusivamente sull’aspetto sociale, senza libero mercato, si sia rivelato un vero fallimento. Si pensi all’Unione Sovietica o alla Corea del Nord dei nostri giorni.
In parole povere, se quello che vogliamo è il meglio, ovvero una società più giusta, allora dobbiamo creare benessere. Se falliamo in questo tentativo – che in effetti si sta rivelando in tutta la sua problematicità – cesseremo di essere la “società socialmente giusta” di cui tutti andiamo fieri. Dov’è la giustizia sociale, se si calcolano diciannove milioni di disoccupati e se assistiamo impotenti al collasso dello Stato Sociale, la cui riforma è ostacolata dal prevalere di forti interessi privati?
Imparando dal passato
Spesso si dimentica che, solo cinquant’anni fa, quando i leader europei si imbarcarono in questa grande avventura europea, paesi come la Germania e la Francia erano considerati relativamente poveri. Allora l’idea era quella di dar vita ad un
Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio che avrebbe permesso ai membri fondatori il libero scambio attraverso le frontiere. Questo tipo di commercio avrebbe, secondo loro, prodotto una situazione di pace e benessere che avrebbe incoraggiato un’ulteriore integrazione: in grado, a sua volta, di incrementare il benessere e la pace. E la ragione stava proprio dalla loro parte. Abbiamo un grande debito verso Schuman, Monet e gli altri padri fondatori dell’Europa, per averci mostrato il cammino da intraprendere, in un momento in cui il destino dell’Europa era appeso ad un filo. Oggi l’Europa si ritrova nella stessa difficile situazione di precarietà, è giunta alla fine di un’epoca, più di quanto non lo fosse nel 1950, quando il progetto europeo prese il via.
La dissoluzione del blocco sovietico e il fallimento del Patto di Varsavia hanno favorito l’espansione ad Est del modello europeo di Welfare. Con l’allargamento dell’Unione Europea avvenuto lo scorso anno, abbiamo mosso i primi passi verso questa storica opportunità.
Ma lo abbiamo fatto davvero? Alla “Vecchia Europa” non piace molto la “Nuova”, soprattutto per il fatto che quest’ultima è cresciuta dimostrando più attaccamento ai benefici, che al duro lavoro che li produce.
È giunto il momento di superare queste paure. È ora che l’Europa parli direttamente alla gente, mostrando chiaramente i vantaggi che ciò comporta, così come fece Robert Schuman, nel 1950, con il suo appello a mettere insieme le risorse di carbone e di acciaio. È ora di offrire l’immagine di un’Europa unita, di lavorare pacificamente, mano nella mano, facendo ognuno del proprio meglio in uno spirito di solidarietà.
Noi occidentali hanno un compito impellente: abbracciare la modernità, riconsiderare le nostre priorità per promuovere conoscenze e competenze tra i nostri lavoratori, e incoraggiare le nostre aziende e i nostri cittadini a sviluppare pienamente le loro potenzialità al massimo grado della scala economica. Dobbiamo imparare ad incoraggiare il settore imprenditoriale, agevolando l’espansione delle piccole e medie imprese. Dobbiamo, infine, riabbracciare quei principi che ci hanno reso grandi in passato, come il nostro spirito di avventura, il nostro modello educativo, il nostro senso di giustizia sociale e la nostra competitività economica. Così potremo continuare a condividere il nostro benessere col mondo che ci circonda.
Translated from Towards one Europe, old and new