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Uno sviluppo vistosamente non eco-compatibile

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Default profile picture lorenzo erroi

Mentre l’Europa si agita per la longa manus della Cina sui suoi mercati, resta sul tavolo un problema assai spinoso: l’inquinamento.

Spesso l’apertura al mercato porta a una maggiore trasparenza ed apertura dei regimi politici. Magari il rapido sviluppo non avrà regalato alla Cina un’assoluta trasparenza: eppure esso è coinciso, in qualche misura, con una sorta di “Glasnost asiatica”: governo più accessibile, allentamento del controllo dello Stato sui media, società più aperta verso l’esterno. Ma mentre la cortina della segretezza si dissolve, il problema delle conseguenze di questo boom per l’ambiente assume un risalto allarmante.

Una questione globale

Gli ultimi venticinque anni di crescita economica hanno devastato l’ecosistema cinese: e fra altri venticinque anni la stessa cosa potrebbe capitare al mondo intero. D’altronde il depauperamento inarrestabile delle risorse ambientali non può stupire, se si considerano le dimensioni di questa crescita: secondo l’Asian Development Bank l’importazione di merci in Cina è salita del 40% nell’ultimo anno, mentre il Paese consuma quasi un terzo della produzione mondiale di rame, acciaio e carbone. Mancano leggi in grado di contrastare efficacemente le conseguenze ambientali di un tale consumo, e intanto l’inquinamento da combustione di carbone – fonte del 70% dell’energia cinese – sta danneggiando la salute degli uomini e la qualità di aria e acqua.

Inoltre il fatto che la rapida crescita non sia bastata a soppiantare un sistema di infrastrutture obsoleto non fa che peggiorare la situazione. La considerevole produzione industriale, per esempio, ha sottoposto ad una pressione enorme l’arcaico sistema cinese di approvvigionamento idrico: la stessa Pechino ammette che il 70% dei laghi e dei fiumi cinesi è inquinato. Ma la popolazione dipende ancora in larga misura dalla loro acqua, che viene bevuta e utilizzata per quasi ogni attività quotidiana. Ciò rende gravissimo il pericolo di malattie e infezioni, specie in alcune aree: lo dimostra l’esplosione di gas tossici che all’inizio di novembre ha contaminato il fiume Songhua.

Ma la Cina non è il solo colpevole

Per anni quello dell’inquinamento è rimasto un mero “problema interno”, dato che alla comunità internazionale era negata ogni possibilità di intervento. Ma con una Cina sempre più coinvolta nei mercati mondiali, il mancato rispetto dell’ambiente è divenuto un problema che è andato oltre i suoi confini, fino a diventare di tutti: specie da quando l’introduzione di leggi permissive hanno spinto i Paesi sviluppati a cercare in Cina un’alternativa alle proprie discariche.

L’Inghilterra è il principale colpevole dell’esportazione di rifiuti in Cina. Secondo recenti stime governamentali, il Regno Unito si sbarazza di più di un terzo dei suoi rifiuti plastici e cartacei inviandoli nel Regno del Dragone, senza preoccuparsi troppo delle conseguenze. Intanto il grande sviluppo industriale cinese, insieme alla penuria in loco di questi materiali-chiave, ne ha determinato un’esplosione della domanda. La Cina è così divenuta una frontiera allettante per le aziende inglesi, braccate da leggi sempre più restrittive in materia di esportazione dei rifiuti all’interno dell’Ue. Ma è difficile dire che fine facciano questi rifiuti una volta arrivati in Cina: Martin Baker, portavoce di Greenpeace China, spiega che «ci sono alcuni buoni centri, ma in generale il riciclaggio è insufficiente, improvvisato e poco rispettoso degli standard ambientali. La gente brucia la plastica dopo averla divisa a mano, inquinando così acque che poi si riversano nei fiumi».

Anche se alla Cina è imputabile una parte di queste colpe, i principali responsabili sono i paesi che per smaltire i rifiuti cercano scorciatoie all’estero. L’Inghilterra, per esempio, dovrebbe migliorare il suo sistema di riciclaggio, che resta al palo se confrontato con quello tedesco o danese.

Primi passi

Ma le autorità cinesi hanno fatto anche qualche mossa positiva per la soluzione dei problemi ambientali. L’inquinamento atmosferico è ormai endemico nelle metropoli cinesi, tanto che nel 1998 l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) ne ha iscritte ben sette nella classifica delle dieci città più inquinate del mondo: ma nel 2002 il governo cinese ha approvato una legge per promuovere produzioni più pulite, introducendo una tassa sui carboni ad alto contenuto di zolfo. E a Pechino, intanto, gli autobus si stanno convertendo all’alimentazione a metano. Tutti progetti corroborati dall’annuncio cinese di raddoppiare il ricorso a energie alternative entro il 2020. E visto che la Cina è il secondo Paese maggiormente responsabile dell’effetto serra, si tratta di grandi notizie.

In ogni caso la crescita cinese nel Ventunesimo secolo continuerà serrata. E con una popolazione che è quattro volte quella degli Stati Uniti, ben presto il Celeste Impero strapperà loro la palma di Paese in cui si consumano più risorse. Ora gli Usa, ma anche l’Unione Europea, devono fungere da esempio, affinando i loro piani di riduzione delle emissioni inquinanti e dell’inquinamento in generale. Allora, forse, Paesi come la Cina e l’India saranno forzati a seguire i loro passi. Senza per questo rinunciare a far crescere le loro economie.

Translated from China’s environmental legacy