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"People's climate case": la storia di 10 famiglie che hanno sfidato l'Ue

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Ivana Minuti

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L'anno scorso, l'Unione europea (Ue) è stata citata in giudizio per non aver agito adeguatamente contro il riscaldamento globale. Il ricorso è stato presentato dinanzi alla Corte di giustizia dell'Unione europea il 24 maggio 2018. Chi costituisce l'accusa? 10 famiglie e un'associazione svedese. Nel frattempo è trascorso un anno di folli speranze, di attese giudiziarie e di marce per il clima.

Per Maurice Feschet, coltivatore di lavanda in pensione nel dipartimento della Drome, tutto è iniziato un anno e mezzo fa. Il ricordo è ancora vivo: in seguito alla solita discussione con il suo amico e vicino tedesco, Gerd Winter, professore all'Università di Brema, l'uomo di 73 anni, ricurvo sulla sua zappa, dà un'altra occhiata al suo raccolto, sospira e riflette, per l’ennesima volta, «sulle difficoltà dell'azienda familiare»: da un decennio, ormai, la produzione di fiori di lavanda cala in maniera inesorabile. E così, raggiunta la venerabile età di tre quarti di secolo, Maurice Feschet decide di reagire. Seguendo il consiglio di Winter, aderisce al progetto CAN Europe, una coalizione di 150 ONG europee che lottano contro il riscaldamento climatico. Come? Citando in giudizio il Parlamento europeo e il Consiglio europeo - le istituzioni comunitarie che rappresentano, da un lato, 430 milioni di cittadini europei e, dall’altro, i governi dei Paesi Ue - per «inazione climatica».

11 persone contro l'Ue

Assistiti da avvocati e decine di organizzazioni ambientaliste che si occupano delle relazioni con la stampa, Feschet e altri dieci famiglie querelanti provenienti dall'Europa, dall'Africa e dall'Oceania, si imbarcano in una vera e propria avventura: chiedono formalmente all'Unione europea di «rivedere al rialzo i loro obiettivi per contrastare il riscaldamento climatico». In realtà, lo esigono. Maurive Feschet e gli altri sono infatti decisi ad attaccare l'Ue, costi quel che costi. L’obiettivo è quello di creare un precedente giudiziario esemplare, in ambito climatico. Insieme costituiscono, dunque, il “People's climate Case”. Il loro reclamo riguarda principalmente le emissioni di gas serra. L'obiettivo adottato dalle istituzioni nel 2014 è di ridurre, entro il 2030, le emissioni del 40% rispetto ai valori del 1990. Secondo l’accusa, il target è «inadeguato rispetto alla necessità di prevenire i pericoli del cambiamento climatico e non è sufficiente a proteggere i loro diritti fondamentali».


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Il progetto di far partire un'azione legale contro l'Ue subisce un’accelerazione alla fine del 2017, quando il Consiglio e il Parlamento europeo adottano tre leggi che regolamentano il conseguimento degli obiettivi di riduzione delle emissioni di gas a effetto serra. Tuttavia, bisognerà aspettare il 24 maggio 2018 e, più nel dettaglio, l’entrata in vigore delle norme per avviare ufficialmente la procedura giudiziaria. Si tratta di un dettaglio non da poco, perché, alla luce delle regole che viggono a livello europeo, «non si può aspettare troppo: i trattati dell'Unione europea fissano una data limite per opporsi alle direttive», spiega Roda Verheyen, l'avvocato delle famiglie.

In ogni caso, l'azione procede. Secondo l’accusa, l'Europa predica bene, ma razzola male. Da un lato, la COP21 e le dichiarazioni fatte davanti alle telecamere di tutto il mondo permettono al Vecchio continente di godere di una buona reputazione quando si parla di lotta al riscaldamento climatico - un'immagine rafforzata dall’uscita dall’accordo degli Stati Uniti. Dall'altro, le politiche quotidiane delle istituzioni sarebbero insufficienti e metterebbe in pericolo «le famiglie, i loro mestieri tradizionali e le future generazioni». Che siano agricoltori, allevatori o albergatori: tutti vedono la natura intorno a loro cambiare in maniera pericolosa.

L'Ue nel mondo: un bilancio ambiguo

In una prospettiva globale, l'Ue è il terzo agente inquinante al mondo, preceduto da Cina e Stati Uniti, ma, allo stesso tempo, è anche l’attore che ha fissato gli obiettivi più incisivi per ridurre le emissioni di gas serra. Dal 2015 ad oggi - vale a dire, a partire dalla definizione dell'accordo di Parigi - «nessun Paese dell'Unione europea ha adottato delle leggi vincolanti in linea con gli impegni presi», sottolineano le famiglie e le ONG coinvolte nell’azione giudiziaria. E neanche i dati, divulgati l'8 maggio scorso da Eurostat, i quali attestano un calo del 2,5 per cento delle emissioni di CO2 da parte dei Paesi membri tra il 2017 e il 2018, sarebbero rassicuranti. Lo scorso 10 maggio, il WWF ha rivelato che l'Ue ha raggiunto il suo "Earth overshoot day" (“il giorno del sovrasfruttamento delle risorse naturali”, ndr.) ben 7 mesi prima della fine dell'anno solare. In altre parole, a partire da quella data, i 28 Stati membri hanno già «pescato più pesci, abbattuto più alberi e coltivato più terre di quanto la la natura non possa offrire nel corso di un anno», ribadisce Verheyen: «La nostra, è una reazione, non un attacco».

Ma perché affrontare un’istituzione sovranazionale, invece che gli Stati o le imprese, come fanno già altre organizzazioni? «È l’Europa che fissa le regole e che, di fatto, consente agli Stati membri e alle imprese di inquinare», continua Verheyen. E, tra l’altro, chiedere all’Ue di rivedere al rialzo gli obiettivi non impedisce di affrontare, allo stesso tempo, le imprese e i governi». Tanto più, se si considera che la politica ambientale, dal 1992, a partire dalla stipulazione del Trattato di Maastricht, è una competenza europea.

Dalle renne Saamis ai pesci delle Figi

Ogni mese, Maurice Feschet sperimenta gli effetti del cambiamento climatico in atto in Europa sulla propria pelle. La sua famiglia è residente nel sud-est della Francia da ben cinque generazioni. Il coltivatore di lavanda confida che «subisce in pieno il cambiamento climatico, soprattutto da un punto di vista finanziario». Nel corso degli ultimi dieci anni, sono andate perdute 30 tonnellate di raccolto di fiori di lavanda, a causa delle avversità climatiche. L’agricoltore fa il punto della situazione: «Le temperature sono ormai insolitamente alte nella prima parte dell’anno e sono seguite da intense e lunghe precipitazioni che danneggiano le coltivazioni». Ma Maurice Feschet non è il solo a vedersi crollare il mondo addosso.

Maurice Feschet
Maurice Feschet, France © Markus Raschke / Protect the Planet

Tra i querelanti, c’è anche la famiglia portoghese, Carvalho, la quale, un paio di anni fa, ha visto andare in fiamme il 95 per cento delle aree forestali che gestiva, a causa di un enorme incendio. Il 2017 fu un anno «insolitamente» caldo - basti pensare che l’incendio che distrusse ampie aree del Portogallo scoppiò il 15 ottobre.

Ma anche più a nord in Europa, in Svezia, e addirittura vicino al circolo polare, la constatazione del riscaldamento globale e delle sue conseguenze è la stessa: la comunità autoctona, Saami, la cui organizzazione è fondata da secoli sull’allevamento delle renne, vede minacciata la propria esistenza. L’incremento delle temperature modifica i periodi di transumanza e anche il cibo delle renne diventa sempre più scarso. È per difendere la loro cultura secolare, dunque, che Saminuorra, l’associazione di giovani Saami svedesi, si è unita al People's Climate Case.

Signor Carvalho
Signor Carvalho, Portogallo © Nuno Forner / ZERO

E qualora fosse necessaria un’ulteriore prova della dimensione globale del problema, la provenienza del gruppo di querelanti non si limitata al territorio dell’Unione europea. Anche una famiglia del Kenya e un’altra delle Figi consolidano i ranghi dell’accusa. «I diritti fondamentali dell’Ue dovrebbero proteggere anche i cittadini che vivono al di fuori dell’Ue. Queste famiglie ricordano all’Ue di avere delle responsabilità a livello internazionale. Un obiettivo di protezione dell'abiente più ambizioso in Europa trasmetterebbe un messaggio forte anche agli altri attori globali e potrebbe far raddoppiare gli sforzi altrove», dichiara CAN Europe.

Una causa inammissibile?

I querelanti lo ripetono all’infinito: non è affatto una questione di soldi. L’obiettivo della causa aperta l’anno scorso sulla base di 10 argomentazioni molto dettagliate è cambiare lo status quo: «Se la Corte dichiarasse che l’obiettivo di ridurre del 40% i gas a effetto serra entro il 2030 come insufficiente, obbligherebbe il Parlamento e il Consiglio europeo a presentare nuovi obiettivi», afferma Verheyen.

Eppure, per il momento, il sogno non sembra realizzarsi, anzi. Lo scorso 8 maggio, dopo 7 mesi d’attesa, la sentenza di primo grado ha «verbalizzato l’inammissibilità del caso». Un brutto colpo per i ricorrenti. Nelle motivazioni si sostiene che non esiste «una legittimazione sufficiente ad agire contro una misura di attuazione generale» delle istituzioni. In breve, le famiglie non possono fari riferimento a un impatto «diretto e individuale» a causa del mancato intervento delle istituzioni. E, di conseguenza, non possono quindi chiedere l’annullamento degli obiettivi in vigore fissati dall’Unione. «Quando si ha a che fare con le istituzioni, il problema è di dimostrare il loro obbligo ad agire», precisa Judith Rochfeld, professoressa di Diritto privato all’Università Sorbona di Parigi.


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La sentenza chiude il capitolo People’s Climate Case? «Niente affatto», sostiene ancora Verheyen: «Il caso non è stato ancora archiviato. Anzi, la Corte riconosce che il cambiamento climatico ha un impatto su tutti noi». L'11 luglio, è stato presentato il ricorso ufficiale alla sentenza di primo grado.

Attivismo giudiziario? Una tendenza mondiale

Al di là della conclusione della procedura giudiziaria, il caso ha anche un’importanza simbolica. Per i querelanti certamente, ma anche, e più in generale, per la società civile: «È importante che le persone prendano coscienza del problema», sostiene Feschet. «Vogliamo avvertire le persone che le cose stanno cambiando». Il bisogno di smuovere le acque è condiviso da tutte le famiglie. Vlad Petru, un agricoltore rumeno che è «nato e morirà sulle sue montagne», chiede giustizia «per i contadini e per il resto del mondo».

Una petizione on line per sostenere il ricorso ha permesso, a oggi, di raccogliere più di 190mila firme. L’idea è di imitare il modello francese di l’Affaire du Siècle (una petizione online che raccolse più di due milioni di firme). «Le azioni legali richiamano l'attenzione dei media e aiutano a far prendere coscienza delle questioni sociali: stimolano le personea agire anche individualmente e permettono di ampliare cause collettive» spiega Rochfeld. Le marce per il clima in tutta Europa, e le azioni di disobbedienza civile che si moltiplicano a Londra e a Parigi ne sono una dimostrazione.

A livello globale, inoltre, i ricorsi contro gli Stati si sono moltiplicati in questi ultimi anni: in Pakistan, in Ecuador, negli Stati Uniti, nonché nei Paesi Bassi. Proprio in Olanda, nell’ottobre 2018, il potere giudiziario ha chiesto all'esecutivo di rafforzare l’obiettivo relativo alla riduzione delle emissioni di gas a effetto serra: si è trattato di una prima visione mondiale. Secondo il Sabin Center for Climate Change Law, un centro di ricerca dell’Università della Columbia negli Stati Uniti e specializzato nel censimento dei ricorsi climatici, quasi 1000 contenziosi oppongono oggi cittadini, associazioni e membri della società civile alle autorità pubbliche, soprattutto negli USA.

Queste mobilitazioni creano pressione sulla classe politica, costretta a intervenire. «Anche se i giudici non danno ragione ai querelanti, lo svolgimento del processo cambia, in generale, l’agenda e porta a integrare azioni concrete nelle politiche in materia ambientale», assicura Rochfeld. Per esempio, il Parlamento europeo ha votato nell’ottobre 2018 una mozione, non vincolante, chiedendo di portare la riduzione delle emissioni di gas a effetto serra dal 40 al 55 per cento. Alcuni membri del People’s Climate Case sono anche stati ricevuti a Bruxelles lo scorso marzo. Inoltre, la Commissione europea stessa ha riconosciuto che le politiche di lungo periodo dell’Ue non permettono di rispettare gli impegni dell’accordo di Parigi (COP21).

Infine, i risultati delle elezioni europee del 2019 sono il segnale più recente di un’evoluzione globale significativa che riguarda la problematica ambientale. In tutta Europa, le formazioni ecologiste hanno ottenuto una spinta inaudita. Soprattutto in Germania (20 per cento dei voti) e in Francia (13 per cento). Forte di una ventina di neoeletti al Parlamento europeo, il Gruppo dei Verdi potrebbe, con un totale di quasi 70 parlamentari, influire, nell’arco dei prossimi cinque anni, sugli orientamenti politici del Vecchio continente. «È un mandato per dei cambiamenti reali, a favore della protezione dell’ambiente e dei diritti fondamentali, di un’Europa più sociale e democratica», ha affermato, all’indomani delle elezioni, Ska Keller, capolista del Gruppo parlamentare dei Verdi e candidata alla presidenza della Commissione europea. Una volontà di cambiamento alla quale vogliono credere anche i protagonisti del People’s climate Case e, più in generale, tutti i cittadini europei.


Foto di copertina : Kenya © Markus Raschke / Protect the Planet

Translated from Climat : quand des citoyens attaquent l’Europe