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Mashrou' Leila: «I media banalizzano il mondo arabo»

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TorinoCultura

Da “voce della Primavera Araba” a “paladini della causa LGBT” nel Medioriente: sono molte le etichette che sono state affibbiate ai Mashrou' Leila. Ma quanto c’è di vero in tutto ciò? Intervista oltre gli stereotipi con il gruppo pop più famoso di Beirut.

Passo lento, lo sguardo rivolto in alto ad ammirare il soffitto di Palazzo Graneri della Roccia, le voci sovrastate dallo scricchiolio del parquet: i Mashrou' Leila raggiungono la sala stampa in maniera pacata. Sono vestiti tutti di nero e sembrano pieni di ammirazione verso il luogo che li ospita, quasi fossero una scolaresca in gita. Eppure, la vera attrazione sono loro. La sala è gremita. Ormai sono una delle band più famose del Medioriente.

Come sono arrivati fin qui? Nel 2008 tre studenti dell’Università Americana di Beirut (AUB) formano un gruppo musicale; ma manca una voce. Hamed Sinno (voce e frontman) sbaraglia la concorrenza alle selezioni della band e presto il gruppo è al completo. La popolarità dei Mashrou' Leila  (tradotto in inglese “Overnight project”, nda.) cresce a ritmi sbalorditivi grazie a un’azzeccata strategia di crowdfunding e l’irrompere di internet nell’industria musicale. In sei anni realizzano tre album: Mashrou' Leila (2009), El Hal Romancy (2011) e Raasük (2013).

Al Circolo dei Lettori di Torino è proprio Hamed che prende la parola per raccontare la loro storia e rispondere alle domande del pubblico. Gli altri membri del gruppo si infilano a turno nelle sue risposte come fossero assoli di una canzone. Ogni tanto qualcuno di loro ride sotto ai baffi, quasi a sdrammatizzare la serietà che trapela dalla voce sottotono di Hamed.

Una questione di lingua

I Mashrou' Leila hanno deciso fin dall’inizio di cantare in arabo (ascoltatevi anche la splendida cover di “Get Lucky” con Nile Rogers). Eppure, come racconta Hamed, «ai tempi dell’AUB parlavamo meglio l’inglese e il francese». Come spiegare la loro scelta? «Nelle società post-coloniali la lingua che parli dipende dall’estrazione sociale e dal passato del tuo Paese», spiega Hamed, che continua: «La scelta di cantare in arabo è stata una conseguenza: non volevamo rappresentare una élite». Haig Papazian (violino) - ricorda che durante l’infanzia «era impossibile ascoltare canzoni arabe che affrontassero tematiche politicamente controverse». È stata una vera e propria strategia rivoluzionaria studiata a tavolino? “Sarebbe ipocrita se confermassimo questa idea”, confessa ancora Hamed. «In primo luogo lo abbiamo fatto per noi stessi. Inoltre volevamo parlare soprattutto alla gente del nostro Paese. Non pensavamo di arrivare al mercato globale». Ibrahim Badr (basso) dal suo canto aggiunge che la «sonorità era semplicemente perfetta».

Oltre le etichette

Poco importa. Per tutti i media, i Mashrou' Leila sono diventati comunque “la voce della Primavera Araba”. Cosa ne pensano loro? Guardatevi il video (sottotitolato in italiano, nda.).

Crediti Foto (in ordine di comparsa nel video): Saleem Al Homsi, Shakeeb Al Jabri, Chris Belsten, Caruso Pinguin, Bundniss 90 Die Grunen, Al Hussainy Mohamed.

Presto per Hamed arriva anche il paragone con Freddy Mercury. Perché? Ha una gran voce ed è omosessuale. Soprattutto grazie alla canzone Shim El Yasmine, i Mashrou' Leila vengono definiti come i paladini della causa LGBT nei Paesi arabi: è un’altra etichetta che sta stretta ad Hamed. «I nostri testi ruotano intorno a conflitti di varia natura: politici, di classe, passando per quelli religiosi fino a raggiungere quelli più intimi della singola persona», afferma.

Ma la responsabilità ormai è grande. Sembra che un’intera generazione araba gli stia con il fiato sul collo. Hamed sdrammatizza e fa il piacione: «Sì, abbiamo un pubblico bellissimo, come anche qui a Torino questa sera». Haig spiega che «le loro canzoni si inseriscono nella tradizione artistica del ‘realismo sociale’ arabo nato addirittura a inizio ‘900». «Semplicemente non li avevano mai passati in radio», continua. È anche per questo che Hamed sentenzia giocando con le parole: «Il nostro pubblico, in fin dei conti, è lo stesso di cinquant’anni fa».

Volare con i piedi per terra

I Mashrou' Leila puntano il dito soprattutto contro i media - sia occidentali che arabi - quando parlano delle etichette che gli sono state affibbiate. E se dell’Europa ammirano «l’efficienza delle infrastrutture pubbliche e la cura riservata all’eredità culturale che si incontra lungo le strade», dall’altra, accusano il nostro continente «di semplificare il mondo arabo e la sua gente».  Sarà per sdrammatizzare che Haig questa volta la butta sul grottesco: «Una volta ci hanno fatto suonare in una tenda in cui era stato allestito un tappeto volante» - le risate in sala non si trattengono. Su un punto sono tutti d’acccordo: «Sei anni fa, nessuno si sarebbe mai aspettato di avere tanto successo». Viene da chiedersi se ci siano ancora degli obiettivi da raggiungere. «Ci piacerebbe suonare in Siria e Palestina», ammettono. In sala scatta qualche applauso.

In fondo, la metafora del tappeto volante calza bene: da un lato i Mashrou' Leila sanno che è giusto far sognare e volare il proprio pubblico. Dall’altro, devono essere pronti a rimanere piantati per terra cercando di non farsi schiacciare dagli stereotipi.