Mangiar glocal è cosa buona e giusta?
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Valerio MacchiaMangiare sano può salvare l'ambiente, l'economia e le culture locali. Almeno stando a Slow Food, l'organizzazione no-profit di educazione alimentare fondata nel 1989 dallo scrittore italiano Carlo Petrini.
Il suo allettante presupposto è combattere gli effetti omologanti della dottrina delle multinazionali americane, attraverso la rivalutazione del cibo locale, fresco e biologico, il tutto riassunto nel manifesto del “diritto al piacere”. Diritto già attivamente esercitato a Torino. Una capatina daMBun, Eataly e Grom. Il cofondatore di MBun
Profitto o non profitto?
Chiara Vezza è la proprietaria di Tavola di Babele, un piccolo ristorante che vanta l'uso di prodotti biologici coltivati localmente, a Borgo San Paolo. Non dipendere da prodotti importati significa per lei, in tempi di crisi, avere sempre l’accesso agli ingredienti garantito. «Un anno e mezzo fa, ci fu uno sciopero degli autotrasportatori - ricorda - io compro i miei prodotti da una donna del posto e ho sempre potuto bisogno ottenere ciò che mi serviva, a differenza degli altri ristoranti». Nonostante questi vantaggi, percepisco in lei un residuo di sospetto verso quelle imprese apparentemente sostenibili che sono globali e generano profitti. In fondo, non c'è un'intrinseca contraddizione nel voler globalizzare un'attività la cui etica ruota intorno ad agricoltori su piccola scala e a un patrimonio gastronomico locale?
Questo paradosso è emerso esplicitamente quando ho visitato Eataly, il più grande centro commerciale di cibo di alta qualità, nella vecchia fabbrica del vermut Carpano. L'ipermercato di 30mila metri quadrati dalla forma irregolare è stato inaugurato nel febbraio 2007 dall'imprenditore locale Oscar Farinetti e sembra poco più di un bazar reso sterile. Né confusione o rumore eccessivo, ma piuttosto un angolo per navigare in internet su computer Mac e una frenetica selezione di acque minerali. Pur avendo il movimento Slow Food come consulente, Eataly non è proprio una sovversione del modello corporativistico, ma la sua replica abilmente commercializzata. Stiamo contribuendo ad un mondo meno anonimo spendendo un sacco di soldi in questa cattedrale del commercio equo e della bellezza biologicamente coltivata? Oppure comprare una coca cola nella piccola cappella di un negozietto risulterebbe altrettanto efficace? Sebbene Eataly dichiari di essere accessibile a tutti, lo stile di vita che espone sembra essere inevitabilmente fuori dalla portata di chi è colpito più duramente dalla crisi. Come pare suggerire con una filiale di 32mila metri quadri a Manhattan, la cui apertura è prevista per la primavera 2010.
Ai quattro angoli del globo con un occhio umano
Date queste contraddizioni, ho incontrato Guido Martinetti con una certa diffidenza. La prima gelateria Grom fu aperta a Torino nel 2003 da Martinetti e dal suo amico di lunga data Federico Grom, quando avevano 28 anni. Oggi le gelaterie Grom sono presenti in 22 città italiane più Parigi, New York e Tokyo. I gelati sono preparati con prodotti freschi e coltivati con cura nelle aziende agricole fuori Torino, di proprietà di Marinetti e Grom, completati da minuziose ricerche internazionali per gli ingredienti più prelibati. Martinetti non è alla ricerca di marchi come “biologico” o “commercio equo e solidale”, la cui certificazione è spesso troppo difficile da ottenere persino, ad esempio, per una remota comunità agricola indigena della Bolivia.
Nonostante operi in tutto il mondo, i principi di Grom non sembrano essersi compromessi. Il suo successo economico, dice Martinetti, permette infatti l'acquisto di terreni per produrre localmente. Inoltre, entrambi gli imprenditori aderiscono ad una rigida etica commerciale: rifiutano di rendere franchising la ditta, rispondono personalmente ad ogni email, a fine mese portano a casa uno stipendio inferiore a quello dei direttori dei loro punti vendita. E promuovono il lavoro manuale, quando questo può essere impiegato al posto delle macchine. Martinetti preferirebbe vedere altri italiani impiegati anziché guadagnare facilmente qualche spicciolo in più.Il successo di Grom è una prova che il modello commerciale che rifugge le avide e innumerevoli tendenze di molte multinazionali può essere vantaggioso.
Oggi più che mai, una catena di produzione ridotta crea un buon senso degli affari; si traduce in costi modesti per il trasporto e una minore dipendenza dai capricci del mercato globale. C'è anche una crescente necessità ambientale per le filiere più piccole e la produzione locale. Un recente rapporto stima che le aziende agricole, specialmente quelle di tipo industriale, sono responsabili del 18% delle emissioni di gas serra; dato che evidenzia una loro maggiore responsabilità più per quel che riguarda il riscaldamento globale che per il trasporto. Ciò che sta alla base di iniziative come Grom è un impegno totale per il cibo di qualità e i valori della collettività, piuttosto che per appariscenti tattiche commerciali che si rifanno alla moda del commercio equo e solidale.
Poiché gli affari fanno emergere che si può ottenere un profitto anche da uno stile di vita sostenibile (nel 2008, la produzione dell'industria biologica ha registrato un fatturato di oltre 16 miliardi di euro), c'è il rischio che questo diventi un altro articolo da produrre in massa e far penzolare di fronte ai consumatori. Ma visto che adesso siamo obbligati a contare i nostri centesimi con più attenzione, forse in futuro riusciremo ad avere una cautela simile anche nel capire quel che mangiamo, chi lo vende e perché.
Tavola di babele, Torino, Via Cumiana 41/b (Borgo San Paolo). Eataly, Torino, Via Nizza, 230 int. 14 (di fronte all'8 Gallery). Grom, Torino, Piazza Pietro Paleocapa 1.
Foto di testa and+'s/ Flickr, le altre immagini di Roboppy e Greg Fonne
Translated from M**Bun, Eataly, GROM: the organic flavour in Turin