Laici contro islamici. Cosa succede in Turchia?
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daniele calistiI due nodi che spiegano la crisi politica senza precedenti che vive il Paese intorno all'elezione del Presidente della Repubblica.
Saranno gli elettori a decidere della contesa tra nazionalisti laici e islamo-democratici. La crisi politica che attanaglia la Turchia sulla questione dell'elezione del nuovo Presidente da parte del Parlamento sarà infatti al centro delle elezioni parlamentari convocate per il 22 luglio prossimo. Forti della maggioranza in Parlamento, gli islamici moderati dell'Akp erano sul punto di eleggere Presidente della Repubblica il loro candidato, Abdullah Gul, attuale Ministro degli Esteri. Ma i deputati dell'opposizione, sostenuti da manifestazioni fiume al grido di «Non vogliamo un imam come presidente!», avevano risposto con un'Aventino, boicottando il voto in aula e chiedendo, con successo, l'intervento della Corte Costituzionale che ha invalidato la votazione tanto contestata. Risultato: sarà il nuovo Parlamento ad eleggere il Capo dello Stato. Fino a quel momento però i costituzionalisti turchi non sanno chi assicurerà l'interim in quanto la legge fondamentale del paese non prevede una tale evenienza. E la crisi in atto è senza precedenti.
Primo problema: un sistema elettivo poco trasparente
Eppure l'Akp aveva cercato di stemperare la tensione, ritirando la candidatura dell'attuale premier al potere, Recep Tayyip Erdogan, e annunciando come candidato a sorpresa proprio il 56enne Gul. Ma le ragioni della crisi turca erano e sono più profonde per essere scacciate da un semplice avvicendamento. Il primo problema è il modo di elezione del Capo dello Stato. La Assemblea Nazionale Turca non è necessariamente rappresentativa del popolo turco, ed è oggi dominata dall’Akp con una maggioranza che sfiora i due terzi. Il Presidente della Repubblica viene eletto per un mandato di sette anni dall’Assemblea Nazionale in un massimo di quattro votazioni a scrutinio segreto. La mancanza di trasparenza che questo comporta si aggiunge all’assenza di una procedura aperta e ampia che possa produrre un largo consenso tra le diverse formazioni politiche. Nel primo e nel secondo scrutinio, è necessaria una maggioranza dei due terzi per essere eletti, mentre al terzo è sufficiente la maggioranza assoluta. Se a questo punto nessuno ha raggiunto la soglia necessaria, soltanto i due candidati che hanno ottenuto il maggior numero di voti al terzo scrutinio potranno partecipare al quarto.
È proprio intorno a questo sistema poco trasparente che si è sviluppata la classica partita di ‘poker politico’. Il clima è stato caratterizzato da candidature tattiche piuttosto che da un dibattito vero e proprio. Il sistema costituzionale che più somiglia a quello turco è quello dell’Italia, paese in cui nel Maggio 2006 l’ex comunista ed attuale presidente Giorgio Napolitano, 83 anni, fu proposto ed eletto all’ultimo minuto, riscontrando però ampie convergenze nell'opinione pubblica. In gran parte degli altri paesi dell’Europa occidentale, invece, la procedura di elezione è più aperta. Per esempio, in Francia la decisione finale è assunta a suffragio universale, mentre in Germania esiste uno specifico collegio elettorale, l’assemblea federale (Bundesversammlung), che comprende i membri del parlamento e delegati dei länder.
Secondo problema: il nodo islamico
Ma il nodo istituzionale non sarebbe in sé un problema se a questo non si aggiungesse il problema della laicità che in Turchia viene vissuta da ampi strati della società come un vero e proprio dogma.
Dal momento che l’Akp era in misura di poter eleggere qualsiasi candidato al terzo scrutinio, l’establishment laico-kemalista temeva una sorta di ‘usurpazione’ della presidenza. Il principale partito di opposizione, il Partito del Popolo Repubblicano (Chp) temeva apertamente la prospettiva di un presidente ‘filoislamico’ o non-laico. Il 13 Aprile, prima che iniziassero le candidature ufficiali, perfino l’attuale Capo dello Stato Sezer aveva espresso la propria preoccupazione in un discorso all’Accademia Turca della Guerra, dicendo che le fondamenta del sistema politico turco «non sono mai state così a rischio». Non solo. L'esercito, considerato l’altra garanzia istituzionale dell’eredità kemalista della Turchia, per bocca di Mehmet Yasar Büyükanit, Capo di Stato Maggiore delle forze armate, aveva detto il 12 Aprile che il prossimo presidente dovrà essere «qualcuno che rispetti davvero i principi della Repubblica e non qualcuno che finga di farlo». Un avvertimento che ha dato i suoi frutti.
Translated from Political deadlock in Turkey