La Serbia del carbone vuole l'Ue, ma Bruxelles frena. E la Cina è alla finestra
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Sono anni che la Serbia negozia il suo ingresso nell'Ue con Bruxelles. Una delle partite fondamentali riguarda il capitolo 27 delle trattative: quello inerente le politiche ambientali. Ma per il momento, sembrano esserci pochi passi avanti. Intanto la Cina gioca la sua partita nell'acquisizione di asset fondamentali del settore. Mentre i cittadini perdono fiducia nel futuro.
«A volte sembra che tengano più al carbone che alle persone». Vesna Terzić, 57 anni, accenna un sorriso; poi torna subito seria ed estrae un album di fotografie rese opache da una fitta coltre grigia: «In ogni caso, quale che sia il vento che soffi, a noi arriva sempre l’aria sporca». Fuori dalla casa di Vesna, a Veliki Crljeni - un insediamento a quaranta chilometri da Belgrado - si respirano zaffate solfuree, mentre cumuli di polvere scura affiancano la via centrale del paese. Un fiume d’acqua nera separa le case da una miniera di carbone a cielo aperto.
Da Veliki Crljeni a Kostolac, tra desolazione, orgoglio e speranza
Dal 1956, a Veliki Crljeni, è in funzione Kolubara A, la più vecchia centrale termoelettrica della Serbia in mano all’EPS (Eektroprivreda Srbije, l’azienda statale dell’energia elettrica e il pià grande datore di lavoro del Paese). Secondo HEAL (Health and Environment Alliance), un’ong internazionale che si focalizza sull’impatto del cambiamento climatico sulla salute delle persone, si tratta di una delle strutture più inquinanti d’Europa. Kolubara A è un colosso che brucia 30 milioni di tonnellate di carbone all’anno e che provvede a più della metà del fabbisogno di energia elettrica del Paese. Infatti, in Serbia, la fornitura di energia elettrica dipende per il 70 per cento dall’estrazione e combustione della lignite, un tipo di carbone poco efficiente e molto dannoso per l’uomo. Peccato, però, che il Paese ne sia estremamente ricco.
Nel 2014, un’inondazione eccezionale ha allagato la casa di Vesna e quella di molti suoi concittadini. Nell’emergenza, venne data priorità alla messa in sicurezza della centrale rispetto alle abitazioni. Ed è così che Vesna e i suoi concittadini hanno aperto gli occhi: «Quando l’EPS ha protetto le miniere e la centrale, lasciando che le nostre case venissero inondate, abbiamo capito di avere un grosso problema», racconta insieme a degli amici che ha riunito a casa sua per l’occasione. L’odore prodotto dalla stufa a legna del soggiorno si mescola al fumo delle sigarette.
Žika ha lavorato per quasi quarant’anni nel ramo della centrale dove si “secca” il carbone prima di bruciarlo: «Non è stata progettata per durare 60 anni. Dovrebbe già essere chiusa, è obsoleta». Žika punta il dito contro la corruzione e la mancanza di misure governative concrete per migliorare la condizione dei cittadini: «I nostri figli se ne stanno andando, chi resta qui lo fa solo perché non ha alternative».
Lo scorso ottobre, i dispositivi installati nel centro di Belgrado avevano registrato una concentrazione di PM10 (un materiale particolato inquinante e dannoso per l’uomo) di 200 μg/m3 ed è subito scattato l’allarme. «Secondo questa logica Veliki Crljeni dovrebbe fare notizia 365 giorni all’anno. Ma qui questo tipo di dati non viene registrato mai», interrompe Vesna. Sebbene il problema delle polveri sottili sia causato soprattutto dall’utilizzo delle stufe a legna e dagli inefficienti sistemi di riscaldamento domestico, il livello di allerta degli ultimi mesi - quando Belgrado è entrata nella classifica mondiale delle 10 città con l’aria più inquinata stilata da AirVisual - ha riaperto il dibattito sul modello energetico serbo.
Kostolac si trova in riva al Danubio, a pochi chilometri di distanza dal confine con la Romania. Come a Veliki Crljeni, anche qui non sono disponibili numeri affidabili sulla qualità dell’aria. Eppure sono in funzione due centrali a carbone con un livello di emissione di PM10 tra i più alti d’Europa. «Io non ho mai avuto particolari problemi di salute», commenta Radisav battendo le nocche del pugno due volte sul tavolo, prima di continuare: «Ma nel corso di 35 anni di lavoro in miniera ne ho visti di colleghi ammalarsi o morire». Radisav è nato in Kosovo come Gmiz, il collega con cui sta bevendo una birra al termine del turno di lavoro pomeridiano. Quando parla della “miniera” si riferisce alle decine di giacimenti che ha scavato in giro per i Balcani da metà anni ‘80 a oggi. Dice che quello di Kostolac è uno dei più grandi che abbia visto.
All’entrata del paese, un nastro trasportatore distribuisce a grande velocità il carbone estratto giorno e notte: «L’escavatrice non si ferma mai», spiega con orgoglio Radisav, mentre indica i macchinari con cui lavora sullo schermo del suo telefono. A Kostolac, la sede amministrativa dell’EPS somiglia al municipio. Radisav e Gmiz vestono l’uniforme con il logo aziendale: «Ho iniziato a fare questo lavoro perché era quello che offriva il posto in cui sono cresciuto», ricorda Gmiz. «Anche se le nuove generazioni serbe non mi sembrano interessate alla questione ambientale, spero che l’ingresso nell’Ue possa cambiare qualcosa nel nostro modello energetico».
L’ingresso nell’Ue: un’opportunità per cambiare
Il problema della cattiva qualità dell’aria in Serbia è in cima alla lista delle preoccupazioni dei negoziatori per l’adesione del Paese all’Unione europea, il cui processo è iniziato sei anni fa. Le pressioni dell’Ue sono logicamente connesse anche alla vicinanza geografica dei Balcani occidentali. Un rapporto coordinato dalle Nazioni Unite, ha contato quasi 5mila decessi prematuri dovuti all’inquinamento dell’aria dei Balcani occidentali, indicando la regione di Belgrado (e di Veliki Crljeni) come la più colpita.
Secondo Simon Ilse, giovane direttore della Fondazione Heinrich Böll nei Balcani, un’organizzazione indipendente, ma affiliata al Partito dei verdi in Germania e che lavora affinché l’area balcanica raggiunga alti standard ambientali, l’ingresso della Serbia nell’Ue potrebbe diventare una chiave di volta: «Può dare una spinta decisiva al Paese per vincere la sfida ambientale». Il capitolo 27 del processo di negoziazione è infatti dedicato all’ambiente.
Eppure non è tutto così facile. La prof. Mirjana Drenovak Ivanović - titolare di una cattedra Jean Monnet in Diritto ambientale europeo presso l’Università di Belgrado - fa parte del gruppo ufficiale di negoziazione della Serbia sul capitolo 27 (l'azione Jean Monnet finanzia la ricerca e l'insegnamento inrenenti l'Unione europea). È lei a spiegare che «si tratta della parte più complessa e costosa per il Paese». «Un terzo delle norme che dovranno essere cambiate nella nostra legislazione hanno a che fare con l’ambiente. Le sfide principali saranno l’inquinamento dell’aria, il trattamento dei rifiuti e quello delle acque».
Un futuro diverso?
Intanto, a pochi chilometri di distanza da Veliki Crljeni sta sorgendo Kolubara B., una nuova imponente centrale a carbone. Secondo Bankwatch network, un gruppo di ong impegnate nella difesa dell’ambiente in Europa centrale e orientale, l’italiana Edison è stata l’unica azienda europea a inviare un’offerta per seguire lo sviluppo dei lavori. Il risultato? Il progetto ora è in mano a investitori cinesi.
Per arrivare allo stabilimento, a partire dalla casa di Vesna e Žika, si devono attraversare alcuni lotti di case fatiscenti, dimora di una decina di profughi provenienti dal Kosovo. I terreni sono già espropriati e fuori dalle recinzioni sono pronti gli escavatori. Del resto, la seconda ciminiera è quasi in piedi, al pari della gemella costruita precedentemente. Teoricamente, l’impianto potrebbe già essere attivo nel 2020. Eppure Vesna e Žika speravano in un futuro diverso per Veliki Crljeni: «Ci sentiamo soli, abbandonati e ignorati». «L’Ue aveva inviato dei fondi per limitare le emissioni delle centrali, ma non è servito a nulla», racconta Žika. «Qui continuano ad aprire miniere e a scavare, come e più di prima». Poi guarda sconsolato le gru che circondano il cantiere e saluta l’addetto alla sicurezza che ne presidia l’entrata: «Vogliamo che la Serbia entri nell’Unione europea, certo. Ma non credo che nei Balcani esisterà un futuro libero dal carbone».