La Berlinale del 2020 ha acceso le luci sul razzismo e l'integrazione
Published on
Translation by:
FedericaAttento al contesto politico, impegnato e inclusivo, il festival di Berlino resta fedele alla tradizione e promuove i valori della tolleranza, da un lato, e l'immaginario dell'apertura dei confini e della mente, dall'altro. Attraverso una serie di film presentati all'interno della sezione "Panorama", il festival analizza i concetti di "straniero", "esilio", "razzismo" e "xenofobia".
Berlin Alexanderplatz : da un classico all'altro?
Una volta raggiunta la città di Berlino, il giovane regista afgano-tedesco, Burhan Qurbani, è andato a vivere vicino al parco Hasenheide. È qui che si è appassionato alle vicende di un gruppo di spacciatori che passano le giornate nelle vicinanza della sua abitazione.
Per riuscire a parlare di queste persone assicurandosi al contempo di coinvolgere il pubblico, Qurbani decide di affrontare una sfida enorme: trasportare sullo schermo il suo libro preferito: Berlin Alexanderplatz di Alfred Döblin. Il regista trasforma il personaggio originale di Franz Biberkopf in un rifugiato venuto dall'Africa dell’ovest che si ritrova invischiato in una banda di spacciatori e rapinatori della capitale tedesca. Presentato tra i film candidati all'Orso d'Oro, Berlin Alexanderplatz è una libera trasposizione del capolavoro di Döblin.
Insieme agli attori e allo staff, Qurbani si confronta inevitabilmente con il regista Rainer Werner Fassbinder, la cui serie ha trattato lo stesso libro cult e ha rivelato al pubblico degli anni '80 alcuni dei più grandi talenti della storia contemporanea del cinema tedesco, come Barbara Sukowa o Hanna Schygulla. Nel film di Qurbani, si contrappongono due figure maschili. Da un lato, c'è Reinhold, un uomo bianco di nazionalità tedesca, interpretato dal brillante e talentuoso Albrecht Schuch. Dall'altro, Franz, un rifugiato africano, impersonato dall'attore e regista portoghese-guineano, Welket Bungué, originario della tribù Balanta.
Profondamente commosso, durante la conferenza stampa Bungué ha spiegato come lui e il team abbiano messo la loro sensibilità e la loro esperienza personale (Bundué è arrivato a Lisbona all'età di tre anni) nella creazione di questo racconto e dei suoi personaggi: «Berlino è un microcosmo e nel film si può scorgere lo splendore di un sogno, grazie al quale le persone tentano di innalzarsi. L’importante non è ciò che fanno questi individui, ma quello che sono e quello che vogliono diventare».
Al posto dei tredici episodi di Fassbinder, Qurbani ha condensato la storia in tre ore avvincenti. Alcuni adattamenti differiscono e la natura del legame tra Reinhold e Franz non è sempre evidente. Inoltre, attraverso scenografia, costumi e luci peculiari Qurbani dipinge Berlino in maniera estetizzante e favorisce un tipo di bellezza peculiare. Insomma, c'è molta ri-costruzione e poca veridicità. Un simile "pregiudizio" visivo può risultare sconcertante se si considera il genere di personaggi e vicende trattato. Eppure, per lo spettatore è difficile non immergersi con interesse in questo universo fatto di gangster e prostitute. La rivisitazione moderna dell'opera permette di affrontare tematiche attuali come il predominio di un colore della pelle su un altro, il destino dei migranti non appena mettono piede in Europa, i traumi intrinsecamente legati ai loro trascorsi personali e le ripercussioni sul tentativo di ricostruire un'esistenza.
Exil : una trappola per topi
Le stesse tematiche vengono affrontate anche in Exil, film del regista kosovaro Visar Morina. La storia è quella di un uomo che, ogni giorno, compie lo stesso tragitto per rincasare dopo il lavoro, costeggiando le staccionate delle case dei vicini. Ma un giorno Xhafer (Mišel' Matičevič) viene bruscamente tirato fuori dalla sua realtà: gli occhi vitrei di un topo morto impiccato al recinto del suo giardino lo fissano. Xhafer é kosovaro ed è sposato con una dottoranda tedesca (Sandra Hüller) con cui ha tre figli. Parla tedesco correttamente, conduce una vita ordinaria e programmata. A parte qualche screzio con la donna delle pulizie dell'azienda presso cui lavora - anche lei kosovara - la sua esistenza sembra essere relativamente impeccabile. Ma quando i segni di un latente odio razzista invadono la sua quotidianità, non può far altro che reagire. Ciò nonostante la moglie solleva l'ipotesi che forse non si tratti di razzismo. Poiché non somiglia a un arabo e non è nero, può darsi che, ai suoi colleghi, semplicemente non vada a genio come persona?
Con maestria Morina non costringe il protagonista in un unico ruolo e solleva una serie di domande inquietanti e, allo stesso tempo, avvincenti: Xhafer è davvero vittima di razzismo e persecuzione, o è paranoico? Chi è il carnefice e chi la vittima? Morina ci mostra così la vastità dei problemi legati all'immigrazione, all'integrazione, al predominio, alla disuguaglianza, all'esilio e al razzismo. La sua cinepresa è fatta di nuche sudate, fronti gocciolanti, colletti di camice bagnati per l'umidità, lunghi corridoi a stento illuminati, scatoloni che fungono da scrivanie, ma dai materiali scadenti e dai colori tristi. La vite dei personaggi sono simili a una «trappola per topi», metafora che perseguita Xhafer catapultandolo nei suoi peggiori incubi. Presto azioni sempre più violente trasformeranno il suo destino.
Presentato al Sundance film festival in anteprima mondiale, il film riesce a esprimere le piaghe del razzismo, dell'ingiustizia e della disuguaglianza e, più nel dettaglio, il modo in cui queste ultime incidono sull'animo umano e possano avvelenare l'esistenza. Come un trauma che si ripercuote di persona in persona, distruggendo ogni gesto di solidarietà, generosità, ogni slancio spontaneo del cuore, conducendo fino all'alienazione sociale, famigliare, e - cosa peggiore - all'alienazione da se stessi.
Translated from La Berlinale interroge le racisme et la xénophobie