Il giorno in cui ho capito che le proteste creano dipendenza
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Serena Iacobucci(Opinione) Sono sempre di più i cittadini che affollano le strade d'Europa per manifestare: protestano contro la Brexit, contro la nuova legge sull'aborto in Polonia, o contro la loi travail in Francia. Ho preso parte ad una marcia di protesta a Parigi, per capire cos'è che spinge i manifestanti più incalliti a gettarsi nella mischia, sfidando gas lacrimogeni e polizia antisommossa.
(Andare incontro ad una folla di centinaia di persone, la maggior parte delle quali tenta di nascondere la propria identità con degli occhialini da nuoto o con delle sciarpe arrotolate intorno al viso. Sfiderei chiunque non abbia mai preso parte a una protesta parigina a farlo senza nemmeno un briciolo di esitazione. Nonostante tutto ho comunque deciso di partecipare alle recenti manifestazioni contro la tanto discussa loi travail. In qualche modo volevo osservarle, nel tentativo di comprendere questo fenomeno che sta ormai da mesi monopolizzando il mio news feed.
Avanzando lentamente per raggiungere la folla rimango stupita nel vedere quanto siano diversi i manifestanti fra loro. Persone di ogni età e classe sociale, tutti uniti, almeno apparentemente, nella lotta contro la nuova riforma del lavoro. Ma, avvicinandomi al cuore della protesta le differenze cominciano pian piano a sfumare. Il numero di donne, bambini e turisti intrappolati lì per caso comincia ad essere superato dal numero di manifestanti più duri e puri, nonché dalla massiccia ed immancabile presenza delle forze di sicurezza. Gli striscioni di protesta spariscono, e mi ritrovo completamente sommersa in un mare di gas lacrimogeni, maschere, urla e improvvisi impeti di protesta da parte dei manifestanti.
Il tentativo di dividere tutti i manifestanti francesi in due categorie, i "casseur" (o "black bloc") e i pacifisti, è una generalizzazione fin troppo facile, che ci fa perdere di vista le motivazioni individuali della protesta. Mentre ero lì, immersa in uno scenario di costante opposizione, ho avuto la sensazione che ci fosse qualcosa di molto più importante in gioco. L'ho capito quando ho sentito uno dei manifestanti urlare: «quand la manif vient à toi, tu ne peux pas la refuser!» («quando la protesta ti chiama, non puoi rifiutarti!»).
Piuttosto che tentare di distinguere i fanatici dai pacifisti, allontanando il dibattito dalle vere motivazioni della protesta e riducendo il tutto a una mera questione di violenza, è importante scavare più a fondo e chiederci perché le persone decidano di prendere parte a queste proteste. Le parole urlate dal valoroso passante mi hanno svelato un aspetto allettante, un qualcosa che rende difficile dire di no ad una manifestazione. E poco importa delle motivazioni personali di quest'ultimo, lui era lì per sentirsi parte di qualcosa di più grande. Ma ci si può assuefare alle proteste? E, se sì, cosa c'è dietro?
Assuefarsi all'adrenalina
Quelle che entrano in ballo sono certamente delle dinamiche storicamente intrinseche nella natura umana. La protesta, in Francia, è un atto con un retaggio culturale che risale ai tempi della Rivoluzione francese. Basti notare come spesso le manifestazioni gravitino quasi "spontaneamente" attorno a Place de la République… Se questo non è un esempio pratico di eterno ritorno nietzschiano, allora non saprei come altro definirlo. Tuttavia, questi impeti rivoluzionari si sviluppano e crescono nel tempo e, qualunque sia la causa, alla base ci sono certamente dei motivi che alimentano una sorta di ossessione morbosa per la protesta.
Ovviamente, manifestare provoca un aumento del flusso di adrenalina nel corpo. E mentirei se vi dicessi che, mentre mi avvicinavo al corteo, non sentivo il cuore battermi in gola. Immergersi in un qualcosa di imprevedibile che, da un momento all'altro, può diventare violento e pericoloso, può essere quasi paragonato all'emozione che si prova facendo del surf estremo o praticando paracadutismo. Sebbene si tratti di un qualcosa di autoindotto, questo tipo di esperienze vanno comunque ad alimentare il nostro istinto di sopravvivenza, e ci rendono dei veri e propri drogati di adrenalina.
Mentre correvo per cercare riparo nell'ingresso di una farmacia chiusa lungo Boulevard du Temple, un manifestante mi ha chiesto se fossi lì come osservatore o come partecipante. Gli ho detto che ero lì solo per osservare e, a quel punto, spalancando gli occhi, mi ha suggerito, con tono quasi paternalistico, di lasciare la manifestazione entro la mezz'ora successiva, aggiungendo che le cose «tendono a prendere una piega violenta». Ho sorriso, ma ero decisamente tentata dall'idea di lasciare la manifestazione. Ed infatti è quello che ho fatto poco dopo, ma solo per il tempo necessario per tornare a casa, lasciare il mio computer e comprare un paio di birre. Mentre tornavo verso la manifestazione, mi sono imbattuta nel mio amichevole vicino che giocava bocce nei pressi del parco di Buttes Chaumont. «Che divario incredibile» ho pensato tra me e me, dirigendomi di nuovo verso il turbinio di scontri con la polizia, i gas lacrimogeni e la folla sciamante.
Per sdrammatizzare, posso dire che questo desiderio di protesta dà anche vita a tanti altri comportamenti altrettanto straordinari. Come, ad esempio, al senso di solidarietà tra manifestanti, che si passano senza sosta la soluzione salina per alleviare gli effetti del gas lacrimogeno, o che si avvertono a vicenda quando i toni stanno diventando un po' troppo accesi. Forse, nella nostra vita quotidiana, dedichiamo troppo poco tempo a prenderci cura delle persone attorno a noi. Durante una manifestazione invece nasce un forte senso di appartenenza alla comunità che va ad annullare le differenze che solitamente, nella vita di tutti i giorni, ci separarano. Momenti come questi possono essere cruciali per ritrovare un senso di communitas in un'epoca in cui ci isoliamo troppo facilmente dall'ambiente che ci circonda. Qualcuno si stava preoccupando per me, in maniera completamente disinteressata, invitandomi a prestare attenzione perché i toni della protesta tendono ad accendersi velocemente. Decisamente notevole, soprattutto in quel momento, mentre l'adrenalina che mi scorreva nelle vene e la tentazione di mettermi alla sprezzante ricerca di situazioni al limite del pericolo era alta.
"Scendiamo in piazza per farci vedere"
Un'altra cosa stupefacente è stata vedere il coinvolgimento dei media. Era addirittura difficile distiguere i giornalisti dai manifestanti, ma il mio istinto mi ha suggerito che, probabilmente, quelli muniti di telecamere gigantesche e microfoni erano dei giornalisti. Mi sono resa conto che tutti i reporter ben equipaggiati tendevano a gravitare attorno le zone dove la tensione era più alta, dove la folla era più fitta e la polizia più numerosa. Proprio come Narciso, ma guidata più dal coraggio che dall'aspetto fisico, sentivo che le telecamere e la presenza dei media davano importanza alla mia partecipazione alla protesta. Manifestiamo perché lottiamo per sostenere una causa ma, in fondo in fondo, scendiamo in strada per farci vedere
Quando gli scontri si sono calmati e i reparti di polizia CRS, nelle loro uniformi da tartarughe Ninja, sono riusciti a rompere il nucleo più consistente di manifestanti, ho deciso di battere in ritirata. Di colpo mi sono sentita fuori luogo, mentre venivo invitata ad andare via. Il mio ruolo da osservatrice nel teatro della protesta era terminato. Seduta lungo Canal St. Martin, dove tanti altri manifestanti si erano raggruppati per parlare di quanto accaduto, discutendo sull'esito positivo della manifestazione oppure semplicemente raccontando la propria esperienza personale, cercavo di riordinare le idee nella mia testa.
Tutta questa esperienza è stata un sovraccarico sensoriale per me. Quando osserviamo una manifestazione attraverso i nostri schermi spesso dimentichiamo che ci stiamo limitando a percepire solo la dimensione visiva di quanto sta accadendo. Non percepiamo gli odori, i rumori delle esplosioni dei lacrimogeni, la sensazione del fumo che ci punge gli occhi, il ribollire della gente attorno a noi. L'ultima protesta contro la loi travail è stata la mia prima esperienza da manifestante. E non sarà l'ultima.
Translated from The day I understood the addictive nature of protesting