Il caso greco: l'UE, i referendum e la democrazia
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Lorenzo BelliniIl 5 luglio prossimo, i cittadini greci dovranno rispondere ad un non meglio precisato referendum sulla crisi del debito pubblico, e si troveranno a scegliere se dare l'assenso ad una nuova fase di austerità. E ancora, con la decisione della BCE di limitare il suo piano straordinario di sostegno, vitale per assicurare la liquidità delle banche greche, il referendum è un "falso" atto di democrazia?
Il Governo di Alexis Tsipras guidato da Syriza, eletto sulla base di un movimento contrario alla austerità, ha giocato un brutto tiro. Dopo aver appreso chiaramente che i membri pro-austerithy dell'UE, come la Germania e la Finlandia, non avrebbero accettato l'ultimo accordo proposto, Tsipras ha indetto un referendum.
La domanda da farsi, sintetizzata perfettamente dal giornalista economico dell'emittente britannica Channel 4, Paul Mason, è la seguente: «Aderiresti al piano scritto da degli analfabeti d'economia e che ti ridurrebbe per sempre in debito con qualcuno, come propone il Fondo monetario internazionale con l'UE; o ci dai il mandato democratico di opporci ad esso, anche se loro faranno precipitare le nostre banche?».
(Aggiornamento: una presunta traduzione del quesito che potrebbe essere posto dal referendum.)
In ogni caso, saranno dolori per i cittadini greci, che siano inflitti da loro stessi o da altri. C'è chi non è convinto della credibilità democratica di questo voto, soprattutto se la domanda non è chiara.
Il quotidiano economico conservatore Naftemporiki scrive: «Il voto su un accordo che non è stato ancora concluso e che comporta dozzine di misure fiscali e altre questioni complesse, i cui dettagli non sono noti e possonon non essere comprensibili, non può essere tradotto in un unico e chiaro quesito». E ancora: «Per far sì che i cittadini si assumano delle responsabilità, il Governo, e tutto il resto della politica, dovrebbero spiegare responsibilmente e onestamente quali sono le conseguenze di un "Sì" o un "No"».
La cosa più probabile è che, comunque sia inquadrato il quesito referendario, i greci si stiano preparando a votare contro le proposte dei creditori, anche se ciò potrebbe significare un'uscita finale dall'Eurozona.
Sarebbe uno straordinario punto di svolta, che alcuni commentatori inglesi hanno soprannominato un "Sarajevo moment" (con riferimento al 28 giugno 2014 e lo scoppio della Prima guerra mondiale, n.d.r.). Nella storia dell'Unione europea, anche quando i referendum nazionali hanno portato a un "No", dalla ratifica dei vari trattati per l'adesione alla moneta unica, il progetto europeo è andato avanti. Questo potrebbe essere il primo risultato referendario ad andare davvero contro al buon senso.
Finora come sono stati visti, in generale, i referendum nei vari paesi dell'Europa, laddove i temi comunitari ne erano interessati?
In Polonia e Germania
Sebbene la Polonia non abbia avuto nessun referendum legato all'UE dalla sua adesione nel 2004, la nostra redattrice polacca Katarzyna Piasecka ci spiega il punto di vista di Varsavia: «I giovani polacchi sono entusiasti dei referendum come via democratica di prendere decisioni politiche e sociali, ma le vecchie generazioni, memori dell'epoca comunista, restano diffidenti circa la loro credibilità. In Polonia, i referendum sono abbastanza comuni, organizzati su scala regolare e spesso richiesti dalla società».
Per quanto riguarda la Germania, così si esprime la nostra editor tedesca Katha Kloss: «Fin dall'esperienza della Repubblica di Weimar, il Grundgesetz tedesco (un po' la nostra Costituzione) non permette referendum nazionali, eccetto che per questioni geografiche come riunire gli stati membri della Federazione tutti insieme oppure no. Invece della "saggezza delle masse" preferiamo parlare del cosiddetto Schwarmdemenz: la "demenza delle masse", un termine popolare che oggi si riferisce alla partecipazione attiva sui social media. Ai tedeschi non è stata mai chiesta la loro opinione direttemente sul caso dell'UE. Ma si fanno sempre più forti le voci a favore di una più diretta partecipazione anche qui. Ecco perché i tedeschi seguiranno il referendum greco il 5 luglio con paura e ammirazione».
La versione dei francesi
In Francia, l'ultimo referendum si è tenuto nel 2005 e ha riguardato la ratifica del trattato che introduceva una nuova Costituzione europea. Il 54,67% (15.449.508 persone) ha votato "No".
Il nostro redattore francese Matthieu Amaré approfondisce il motivo per cui il "No" alla fine è stato privo di uno scopo: «Chiedere alla popolazione di esprimersi su una questione non è un problema, al contrario incarna l'idea di democrazia, e mi sento a posto con questo. Tuttavia, ci sono sempre circostanze diverse e più modi per formulare la domanda. Prendiamo il contesto prima. Nel 2005, il referendum permetteva ai partiti di fare campagna per il "Sì" o il "No". Alla fine è stata una faccenda politica e le persone hanno risposto al quesito non perché li riguardava in qualche modo, ma perché sostenevano l'opinione dei loro candidati».
«In secondo luogo, il quesito: seriamente, c'è qualcuno che l'ha letto attentamente? Era più complicato di un'operazione finanziaria in un paradiso fiscale. Ratifica, trattato, Costituzione... troppe parole tecnocratiche per una risposta anti-establishment. Ma al Governo non interessava. Due anni dopo il "No", hanno deciso di non ascoltare e hanno inserito tutte le misure in un trattato, firmato a Lisbona. Questo non vi dice qualcosa?» conclude.
Il punto di vista in Spagna, Gran Bretagna e Italia
Dal 1936, la Spagna ha avuto sei referendum nazionali. Nell'ultimo, del 2005, ha vinto il "Sì" che ha deciso l'adozione della Costituzione europea. Riguardo la Grecia, la nostra redattrice spagnola Ainhoa Muguerza Osborne afferma: «Un referendum è un segno di buona salute della democrazia e un esercizio del diritto di espressione per i cittadini. Comunque ci sono alcuni aspetti, specialmente quando riguarda una situazione economica, per i quali purtroppo hai bisogno di una conoscenza tecnica e specialistica per prendere una scelta invece di un'altra».
Per la Gran Bretagna, ci sono stati dei referendum locali ma solo due voti anno interessato l'intero Paese. Sebbene nel 2017 sia previsto un voto sulla permanenza nell'UE, nel complesso, sono i voti espressi dal Parlamento quelli che contano, forse dando retta al pensiero dell'ex Primo ministro Margaret Thatcher, secondo la quale i referendum sono «uno strumento dei dittatori e dei demagoghi».
Questo cinismo potrebbe essere giustificato dall'esempio del referendum abrogativo più recente avvenuto in Italia (nel 2011), che ha impacchettato insieme una serie di questioni dal «ritorno all'energia nucleare alla gestione pubblica dell'acqua, come pure la legge sul "legittimo impedimento". Tutti i quesiti hanno visto prevalere il "Sì" all'abolizione di queste leggi», spiega il nostro editor italiano Lorenzo Bellini, «dal 1995, ci sono stati molti altri referendum, ma (eccetto quello del 2011) non hanno raggiunto il quorum obbligatorio del 50% degli aventi diritto al voto».
Per Tsipras e Syriza, un referendum era l'unica carta che gli restava da giocare, nonostante la natura tecnica e l'inevitabilità di un risultato negativo per il popolo greco, qualunque cosa decida questo voto. Vedremo come finirà questa storia il 5 luglio.
Translated from The Greek case: the EU, referenda and democracy