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Giovani, greci ed ebrei: lottare per sopravvivere

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Martina Ricciardi

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Ad Atene un piccolo (ma determinato) gruppo di ebrei lotta per mantenere viva una tradizione che risale a più di 2000 anni fa. In questo clima di austerità e cambiamenti politici i giovani greci di religione ebraica hanno sempre nuovi problemi da affrontare. Siamo andati a conoscerli, scoprendo un piccolo mondo che fa di tutto per mantenersi vivo e rinnovarsi.

Piazza Syntagma, il luogo degli scontri avvenuti ad Atene nel luglio 2015, è stranamente tranquilla questo giovedì mattina. Mi vedo con Dimi, che ha accettato di portarmi in giro per vedere i monumenti ebraci della città. Nato in Israele da madre greco-francese e padre greco, si è trasferito ad Atene all'età di sette anni. Adesso ne ha 24, e vive in Italia dal 2011.

Siamo a febbraio, ma il sole del Mediterraneo picchia forte sulle rovine del Partenone, costruito nel 447 a.C. Dopo meno di un secolo, i primi ebrei romanioti arrivarono in Grecia. Oggi a capo della comunità di Atene ci sono gli ebrei sefarditi, fuggiti in Grecia durante l'inquisizione spagnola.

Prima e dopo l'Olocausto

Man mano che ci allontaniamo dall'Acropoli le taverne e le bancarelle di souvenir diminuiscono. Ed è proprio qui che la città ha deciso di costruire il suo monumento commemorativo dell'Olocausto, a forma di stella di David, inaugurato però solo nel 2011. «Era ora» sospira Dimi, rammaricato. Atene è stata l'ultima capitale europea a commemorare in via ufficiale l'Olocausto, le cui vittime sono state circa l'87% degli ebrei presenti nel paese.

Il Museo Ebraico di Atene, non lontano da piazza Syntagma, testimonia la presenza di circa 78.000 ebrei in Grecia all'inizio della Seconda Guerra Mondiale. Della comunità di Tessalonica, la più grande del paese, ne morirono circa il 97%. E quelli che riuscirono a tornare a casa trovarono ben poco delle loro vite precedenti. La nonna di Dimi fu tra i cinque ebrei che tornarono nell'isola di Kos. Scappando dall'isola a nuoto un loro cugino  riuscì a salvarsi, e ad arrivare poi fino a Cipro. Il museo si sviluppa intorno a una tromba di scala a sei lati, con al centro, appunto, l'Olocausto. Il custode ci ha detto che lo hanno progettato così proprio per sottolineare lo spessore e la varietà della cultura ebraica, prima e dopo l'occupazione nazista. Atene infatti diventò il punto di ritrovo degli ebrei che nel dopoguerra si trasferirono in Grecia, cercando di ricostruirsi una vita. Tuttavia, dice Dimi, le persone spesso non ne sono a conoscenza: «Secondo certe persone, fatta eccezione forse per la regione di Tessalonica, i greco-ebrei non esistono». Alcuni ragazzi greci con cui ho parlato si sono stupiti, per esempio, quando ho detto loro che ad Atene esiste una sinagoga. E non la si trova nemmeno su Google Maps. Questa comunità è inoltre sottoposta a rigide misure di sicurezza: misura necessaria, visti i frequenti episodi di antisemitismo. Non molto tempo fa sul monumento commemorativo infatti sono state trovate delle scritte inneggianti ad Alba Dorata, il partito di estrema destra divenuto famoso per le sue posizioni fortemente razziste e xenofobe.

"Vogliamo che l'età moderna conosca questa tradizione"

In Grecia, un paese per il 98% di religione cristiana greco-ortodossa, la comunità ebraica darsi molto da fare per ricordare alle persone della propria esistenza. «C'è un grande problema di identità» spiega Dimi, «la sinagoga è in crisi». Per provare a mitigare il problema Atene ha lanciato un appello alla Chabad, un'organizzazione internazionale creata per aiutare le sinagoghe del mondo a organizzare programmi di informazione e a metterle in contatto con altre comunità internazionali. Il mio tour con Dimi termina nel primo ristorante kosher, sede degli uffici della Chabad dal 2011: un bel passo avanti rispetto al minuscolo appartamento che avevano all'inizio. È lo spazio disponibile a colpire Dimi: ora c'è persino un alimentari kosher, la situazione è molto migliorata da quando lui viveva in città. In alcune zone di Atene i taxi gialli intasano le strade, sembra quasi di essere a New York. Quando il rabbino Mendel Hendel quindici anni fa lasciò la Grande Mela per trasferirsi ad Atene si trovò di fronte a un compito difficile. A differenza dell'enclave ebraica a Brooklyn Queens, la comunità di Atene è abbastanza "diluita" per città: 2500 persone circa, all'interno di una città che ne ospita cinque milioni. Ed egli accettò la sfida. «Se sei di ispirazione per qualcuno,» spiega «il tuo lavoro non sarà vano. In una piccola comunità come questa è fondamentale dare importanza al valore di ogni individuo».

Negli ultimi tempi però sta diventando sempre più difficile coinvolgere le persone nelle funzioni religiose, soprattutto per quanto riguarda i giovani. «Gli ultimi quattro anni ci hanno messo a dura prova» confessa Hendel. I giovani, non vedendo prospettive in Grecia, cominciano a guardarsi intorno. Questo esodo giovanile non è certamente un'esclusiva della comunità ebraica, ma rende ancora più difficile il coinvolgimento delle nuove generazioni. «Vogliamo che l'età moderna ed il progresso vengano a contatto con questa tradizione, e la considerino importante» spiega. I suoi metodi sono dichiaratamente a favore della modernità: Hendel tiene un workshop settimanale su Skype per i giovani di Atene, e non solo. Perfino un expat greco in Israele segue le sue lezioni dall'estero. Nel 2015 inoltre l'arrivo del nuovo rabbino ha favorito il coinvolgimento dei giovani: Gabriel Negrin è infatti un ragazzo greco di 26 anni. Venerdì sera mi ha invitato al ristorante per il pranzo dello Shabbat, ma Hendel mi ha ricordato che durante il loro giorno di riposo gli ebrei praticanti si astengono da qualsiasi forma di attività creativa, compreso prendere appunti o registrare. Cosa decisamente non semplice per un giornalista.

C'è sempre una prima volta, anche per lo Shabbat

La sera dopo arrivo al ristorante in anticipo, ma al mio arrivo ci sono già degli uomini che cantano in ebraico entusiasti. Un gruppetto di donne e bambini sono seduti su un divano a chiacchierare. Le pietanze sono già sui tavoli, ma il ristorante è ancora mezzo vuoto. Ben consapevole di essere l'unico uomo ad avere la testa scoperta (non coperta dalla kippah, il tipico copricapo ebraico, n.d.r.), attendo l'arrivo di Hendel. Lo vedo poco dopo, in compagnia di una congregazione della sinagoga. Per l'occasione ha indossato un cappello a tesa larga e un vestito nero elegante. Un ragazzino gli passa davanti per raggiungere gli altri, impaziente di iniziare i festeggiamenti. Hendel mi saluta calorosamente e mi va a prendere una kippah, poi mi fa cenno di sedere. A cena, come nella vita, greci ed ebrei sono liberi di mescolarsi. Lo stufato kosher e il pane challah vengono serviti con insalate greche e salsine di melanzane, il tutto accompagnato da abbondante ouzo come aperitivo. In occasione dello Shabbat, lo Chabad accetta di accogliere persone provenienti da tutto il mondo, insieme ai "veterani" greci. «Questo, comunque, è uno dei più tranquilli. Sono stato a uno Shabbat a Bangkok con 500 persone presenti» dice il signore seduto dall'altra parte del tavolo «in Israele ne puoi trovare anche 2000». Un uomo elegante con un abito grigio e una cravatta rossa si siede di fronte a me. Mendel me lo presenta: è il giovane rabbino di cui ho tanto sentito tanto parlare. Mi racconta dei suoi studi in Israele, di come i giovani siano sempre meno interessati alla religione e dei problemi che hanno i turisti che vengono in Grecia per lo Shabbat. Durante la conversazione passa senza battere ciglio dall'inglese all'ebraico al greco. Man mano che le portate arrivano al tavolo, il volume dei canti si fa sempre più alto. «Di solito non è così» dice Hendel, ridendo. Un gruppo di persone è venuto da Israele e, a quanto pare, tra di loro c'è anche una pop star. «Non è una persona molto religiosa» mi spiega Negrin. «Non era neanche alla sinagoga. Eppure guarda, si è messo la kippah e conosce tutti i testi delle canzoni ebraiche. Se lo facesse un cantante greco, la sua carriera finirebbe immediatamente». Anche il rabbino partecipa ai canti: prima di frequentare la scuola rabbinica aveva studiato musica a Creta. La sua identità greca si rispecchia nei suoi gusti musicali, ben più europei di quelli degli ospiti israeliani. «Ho un appuntamento con Morfeo», mi dice dopo cena, e si appella al dio greco del sonno anche quando mi augura «Shabbat shalom».

"Nessuno viene solo per accendere le candele"

La mattina dopo è Negrin a presiedere la cerimonia alla sinagoga. Mi ha invitato Monis, l'ex presidente di un club di giovani ebrei che anche il rabbino aveva frequentato più di quindici anni fa. Esso è stato chiuso nel 2002, perché non vi era abbastanza partecipazione. Adesso lavora in una casa di riposo.

Dopo che la sicurezza mi ha controllato i documenti, Monis mi fa entrare dalla porta anteriore. Le donne entrano da una porta laterale e si siedono in un balcone isolato. Monis saluta quasi tutti quelli che passano. Tutto sommato, fatta eccezione per il rabbino e l'hazan (cantore, n.d.r.) della comunità che presiede la cerimonia, sono di gran lunga il più giovane.

«I giovani sono preoccupati per la loro esistenza» mi dice Monis dopo la funzione. «Non tutti credono che la forza della comunità si basi sulla sinagoga». Secondo lui la sinagoga è fondamentale. «La storia degli ebrei è la loro religione, e la religione è la loro storia» dice. «Mio padre aveva un numero tatuato sul braccio. È mio dovere far sì che la mia e la nostra storia continui. E l'unico modo per fare ciò è riunirsi». E i giovani greco-ebraici riescono a fare ciò molto bene, anche fuori dalla sinagoga. L'Associazione Giovanile della Comunità Ebraica di Atene ha difatti un calendario molto attivo, organizzando eventi e workshop tutto l'anno. Sarina Mizan, 24 anni, è un membro del consiglio direttivo dell'associazione. «Cerchiamo di dare nuova luce alla tradizione» spiega. Durante i festeggiamenti dell'Hannukah (la festa delle luci ebraica, n.d.r.) l'associazione assiste alle funzioni della sinagoga, provvedendo dopo questa all'organizzazione un barbecue. Ed è proprio questa dimensione sociale che riesce a coinvolgere maggiormente i giovani. Come sottolinea Sarina: «Nessuno viene solo per accendere le candele».

Ma le domande legate alla propria peculiare identità sono sempre più difficili da evitare, considerando l'importante ascesa dei partiti di estrema destra nel paese. Secondo Sarina, è difficile partecipare alla conversazione senza conoscere la storia e la situazione politica. In altre parole «è difficile tutelarsi», utilizzando le parole di Sarina. Molti sono andati all'estero, in Israele, ma anche in città come Londra, Dublino e Parigi. Tuttavia anch'essi vengono coinvolti allo stesso modo. Poco tempo fa, durante un Taglit (un viaggio per diritto di nascita in Israele promosso dallo stesso governo israeliano, n.d.r.), l'associazione ottenne la possbilità di ammettere al viaggio anche gli espatriati. «Non potevamo mica lasciarli indietro» spiega Sarina.  Le comunità ebraiche sono sparse per tutta l'Europa e per questo motivo, secondo Sarina, bisogna intensificare i contatti. «Hanno avuto gli stessi problemi in passato,» sostiene «possono mostrarci una direzione». Nonostante le strade davanti a loro siano più di una, «noi siamo tutti amici, è questa la cosa importante». 

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Questo articolo fa parte della serie di reportage EUtoo 2015, un progetto che cerca di raccontare la disillusione dei giovani europei finanziato dalla Commissione Europea.

Translated from Fighting to simply exist: Young, Greek and Jewish