Dentro la Disneyland africana del Museo del Quai Branly
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davide rizzoA un anno dalle rivolte nelle banlieues francesi, lettura (politicamente scorretta) del nuovo museo parigino.
27 ottobre 2005. Dopo la morte controversa di due giovani nelle banlieues, una vera e propria rivolta scoppia nei ghetti di dimenticati che puntellano le periferie di Francia. Una rivolta che avrebbe scosso la fiducia dei francesi nel loro modello di integrazione degli immigrati.
23 giugno 2006. A Parigi apre le porte il Museo del Quai Branly sulle arti primitive d'Africa, Asia, Oceania e Americhe.
Che il museo d’arte indigena del Quai Branly rispecchi un nuovo approccio al presente postcoloniale della Francia a un anno dalle sommosse?
Cittadinanza universale e razzismo istituzionalizzato
Facciamo un passo indietro. Durante i disordini Sarkozy minacciò di espellere tutti gli arrestati, il viceministro del lavoro Gerard Larcher si coprì di ridicolo dando la colpa alle famiglie poligame, mentre Hélène Carrère d'Encausse, segretaria permanente dell’Académie Française, spiegò come i disordini fossero causati da persone provenienti da villaggi africani che si comportavano in Francia come nei loro Paesi d’origine. Il messaggio era in tutti i casi sempre lo stesso: «Voi non siete di qui. Datevi una regolata, o vi mandiamo a casa».
Dietro il razzismo di queste affermazioni c’è una certa idea di cosa significhi essere francese. Mentre l’Inghilterra e l’America hanno promosso, con alterne fortune, una politica delle minoranze, non c’è alcuna menzione dei diritti dei francesi di origine africana. Ci sono soltanto riferimenti ai diritti dei francesi in generale. La cittadinanza universale assoluta è un grande ideale. Peccato però che entri in crisi quando questo modello è adottato da una società che dimostra razzismo istituzionalizzato ed esclude a priori una parte della popolazione. Un sistema simile esclude l’esistenza stessa di posizioni di minoranza da cui lottare per i propri diritti.
Secondo il filosofo francese Jacques Rancière, la politica ha inizio quando gli esclusi chiedono di essere inclusi nella polis. Ma non si accontentano di una fetta della torta, di una parte della sfera pubblica esistente: reclamano la riorganizzazione stessa della polis. Durante la Rivoluzione Francese i rivoluzionari non insorsero per chiedere di essere inclusi nell’aristocrazia, al contrario: decisero che loro stessi – un gruppo particolare della società – si sarebbero fatti interpreti dell’intera collettività. Lo scorso novembre le banlieues non chiesero uno spazio maggiore nella società. Distrussero le loro auto, le loro scuole: un vero e proprio dramma autodistruttivo che mostrava la loro esclusione, e chiedeva di rinegoziare la società in generale. Ciò richiederà un cambiamento nell’immagine che la Francia ha di se stessa.
Uno dei posti migliori per cercare segni di tale cambiamento è il nuovo Museo del Quai Branly, un archivio dei reperti che conservano la memoria del passato coloniale francese.
Nello zoo
I musei ospitano oggetti, oggetti che vivono nei musei, che contengono la memoria di una vita precedente. Il museo si trova davanti un compito importante: come riportarli in vita? La loro seconda esistenza viene creata organizzandoli, classificandoli e confrontandoli. Quali oggetti affiancare, e con quali informazioni? I musei danno una versione della storia che in realtà rivela come il presente interpretati il passato.
Entrando nel Museo del Quai Branly si viene a contatto con l’opinione che la Francia ha del proprio passato coloniale, e del proprio presente postcoloniale. Varcando la soglia, una grande parete di vetro separa l’interno del museo dal trambusto del mondo esterno. Oltre questa parete si trova una vera e propria giungla, una Disneyland africana. Per raggiungere la collezione centrale bisogna
salire una lunga scalinata. Lungo il percorso s’intravvede un frammento della storia del museo. Una torre di vetro piena di oggetti non in esposizione. Strumenti musicali impilati in contenitori di vetro come campioni biologici, le ossa della storia.
In questa torre si vede ciò che i musei erano: la quantificazione scientifica di altre culture, oggetti organizzati in schemi. Di fronte a questo frammento del passato del museo c’è il suo presente. Una serie di grandi schermi mostra paesaggi esotici e sorridenti facce nere: sembra il museo di Mtv. Sugli schermi, queste persone senza oggetti illustrano un multiculturalismo televisivo privo di contenuti. Noi, sembra essere il messaggio del video, viviamo tutti nello stesso mondo, il mondo delle immagini e dell’apparenza. E dalla parte opposta, impilati come cadaveri in formalina, oggetti senza persone.
Se il predecessore del Museo del Quai Branly, il Musée de l'homme, era progettato per mostrare la diversità della natura umana (in un contesto coloniale), il neonato Quai Branly è il Duchamp nell’età della politica delle minoranze. Ogni cosa è separata: le interconnessioni tra culture non sono mai mostrate. Jean Nouvel, l’architetto del museo, dice di aver voluto creare un edificio «libero da tutte le forme occidentali». Perciò niente ringhiere, scale e corrimano; tutto è immerso nella penombra. C’è poca luce a illuminare il percorso centrale, che Nouvel chiama «il serpente», mentre si snoda attraverso il suo strano parco tematico. Maschere dei mondi nascosti dell’Africa occidentale sono esposte dietro una parete fatta in modo da ricordare un tronco d’albero, come ad evocare le foreste in cui le maschere erano usate. Non funziona: le fa soltanto sembrare più distanti.
La cultura francese non è in mostra, ma è l’unica a far sentire ovunque la propria presenza. Lo suggerisce per esempio uno dei poster del Museo. Che mostra una statua dalle isole del Pacifico nel mezzo di Place de la Concorde, con lo slogan Les cultures sont faites pour dialoguer, “Le culture sono fatte per dialogare”. Dialogare sì, ma alle nostre condizioni. I vostri oggetti, ma col significato deciso da noi.
Colonialismo e amnesia
Non c’è storia nel Museo del Quai Branly. Si ha l’impressione che il resto del mondo esista come una serie di oggetti esotici da ammirare, o di volti fotogenici negli schermi appesi alle pareti. Oggetti senza persone, facili da guardare. Persone senza oggetti, facili da assimilare.
Ciò non significa che il museo debba limitarsi a condannare il colonialismo (anche se una piccola menzione non guasterebbe). Un buon museo dovrebbe rimettere in discussione i significati che associamo agli oggetti, dovrebbe far sì che il pubblico si interroghi su un oggetto come forma d’arte e come strumento con usi pratici. In altre parole, dovrebbe gettare dubbi sull’oggetto come pezzo da museo. In definitiva il museo deve mostrare la storia dell’oggetto.
Sarkozy percorre le banlieues con la promessa di ristabilire l’ordine. Facce arrabbiate ci scrutano dalle televisioni francesi. Maschere di iniziazione ci osservano da finte foreste impagliate. Automobili prendono fuoco e testoline dipinte e scuoiate emergono dalle luci soffuse. Ma, attenzione: i drammi delle banlieues e i simboli delle culture “primitive” sono francesi. Ma non sono presentati come tali, anzi. E così il Museo del Quai Branly non è altro che una testimonianza del divario nella società francese tra la realtà contemportanea delle nostre interrelazioni e la percezione che abbiamo dell’“altri”. Che, invece, è il nostro vicino.
Foto in Home Page: Joy Garnett/Flickr. Foto nell'articolo: Cicile Fagerlid/Flickr e Mke1963/Flickr
Non solo musei. Quando il cinema esplora il fenomeno delle ragazze di periferia. (Foto Astrid Gorborsch)
Translated from Inside Musée Quai Branly, an African Disneyland