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Corte Penale Internazionale, partenza in salita

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Il 27 giugno la Corte penale internazionale darà il via al suo primo processo, fondamentale per dimostrare la propria legittimità. Sul banco dell’accusa Thomas Lubanga, leader delle milizie della guerra in Congo.

Lo scorso 20 maggio, appena arrivato da Kinshasa, Thomas Lubanga ha inaugurato il banco degli accusati della Corte penale internazionale. Accusato dal procuratore Luis Moreno Ocampo «di avere trasformato dei bambini congolesi in macchine da guerra», Lubanga si difende dicendo di essere «un politico professionale». Il conflitto in Repubblica Democratica del Congo ha provocato 60.000 morti e 600.000 sfollati, estendendosi su sei differenti Stati nella regione dei Grandi Laghi. Il processo si preannuncia tortuoso, ma il Presidente della Corte Penale Internazionale, il canadese Philippe Kirsch, si dichiara fiducioso: «La Corte ha intenzione di agire con le procedure più veloci possibili, ovviamente nel pieno rispetto delle regole». L’obiettivo è quello di portare a termine il processo entro diciotto mesi.

Un’ibernazione durata cinquant’anni

Sono passati cinquant’anni dalla risoluzione delle Nazioni Unite del 9 dicembre 1948, che prevedeva la creazione di una «corte criminale internazionale» e dalla sua realizzazione grazie all’adozione dello Statuto di Roma nel luglio del 1998. Tuttavia ancora oggi la Corte fa fatica ad affermare la sua legittimità.

Le critiche che le sono state mosse più di frequente riguardano le sue ambizioni universalistiche e la mancanza di strumenti adeguati. Si rimprovera che un processo portato avanti a L’Aja e che giudica crimini commessi in tutt’altro luogo non sarà sufficiente a placare le sofferenze delle popolazioni in loco. Tuttavia il Tribunale Speciale per le Sierra-Leone sta considerando la possibilità di spostare il processo contro l’ex-Presidente della Liberia Charles Taylor, perché prendendo un po’ di distanza la giustizia agisce più serenamente.

L’idea che sottende al bisogno di giustizia internazionale è il rifiuto dell’impunità per i crimini più gravi che recano oltraggio a tutta la comunità internazionale. A partire dal processo di Norimberga sono gli individui ad essere oggetto di giudizio, non più gli stati nazionali, dissipando così il mito della responsabilità collettiva. «In questo modo», sottolinea Antonio Cassese, Professore di Diritto Internazionale all’Università di Firenze, «si evita di dividere il mondo in buoni da una parte e cattivi dall’altra. In ex-Yugoslavia i crimini sono stati perpetrati dai serbi così come dai croati e dai musulmani. La responsabilità e la punizione individuale permettono di andare al di là dell’odio fra i differenti gruppi ».

Competenze ben definite

Malgrado i progressi portati avanti dai Tribunali militari internazionali di Norimberga e di Tokyo tra il 1945 e il 1946, è solo con la fine della Guerra fredda che è stata rilanciata la discussione sulla Corte. La Corte Penale Internazionale ha potuto così trarre benefecio dall’esperienza dei tribunali ad hoc creati per giudicare i crimini commessi in ex-Yugoslavia e in Ruanda, già piccoli laboratori di giustizia internazionale.

La Corte tuttavia, risultato di un consenso il cui carattere permanente ha suscitato una certa diffidenza, è dotata di uno Statuto molto più restrittivo di quello dei suoi predecessori. Infatti non può giudicare i crimini commessi prima del 1° agosto 2002, data di entrata in vigore del suo Statuto, ed esercita un ruolo sussidiario rispetto alle giurisdizioni nazionali, mentre i tribunali ad hoc godevano della priorità.

Rientra nelle competenze della Corte il potere di giudicare le violazioni più gravi del diritto internazionale: crimini contro l’umanità, genocidio e crimini di guerra. Tuttavia permangono alcune zone d’ombra riguardanti la formulazione delle sue competenze. In particolare la definizione di genocidio – distruzione intenzionale di un gruppo a causa della sua nazionalità, etnia, razza o religione – esclude le persecuzioni per ragioni politiche o ideologiche. Nel 2009 tuttavia avrà luogo una revisione dello Statuto tale da poter allargare le competenze della Corte ai cosiddetti treaty crimes: terrorismo, traffico di stupefacenti, grande criminalità internazionale.

Ottimismo?

La Corte Penale Internazionale ha riscontrato un successo che pochi avevano previsto, in particolare in quei piccoli Paesi che hanno insistito per ratificare lo Statuto come Sierra Leone, Colombia, Macedonia e Burundi. Ad oggi la Corte conta cento Stati membri, ovvero quasi la metà degli Stati mondiali. Ma quelli che mancano – Stati Uniti, Russia, Cina, Israele, India…– sono essenziali. Queste assenze limitano molto dal punto di vista geografico il potere della Corte la cui competenza si limita solo ai crimini commessi dai suoi Stati membri o sui loro territori.

Una speranza tuttavia esiste. Il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite infatti può affidarle casi estranei ai suoi territori di competenza. È così che nel marzo 2005, sotto la pressione degli Stati Uniti, Paese non firmatario dello Statuto, le è stato affidato il delicato dossier del Darfur, nonostante il Sudan non sia membro della Corte.

La Corte Penale Internazionale soffre della condizione di giustizia senza polizia né forze armate. Per quanto riguarda la conduzione delle indagini e dipendente completamente dalla buona volontà degli Stati. Nelle due inchieste condotte in Congo e in Uganda la cooperazione della Corte con i poteri locali è piuttosto criticata, perché giudicata contraria all’imparzialità dell’inchiesta.

Secondo Antoine Garapon, Segretario generale dell’Istituto di Studi Superiori sulla Giustizia, la Corte dovrà «inventarsi un prodotto di sintesi che ancora non esiste. Dovrà imparare a calibrare il proprio margine di manovra tra l’applicazione della giustizia internazionale da un lato, e considerazioni di politica internazionale dall’altro, perché le due cose non sono separabili».

Il successo della Corte non si misurerà solamente sulla base dei processi. Per il suo rifiuto ostinato nei confronti dell’impunità, dovrà sollecitare gli Stati a rispettare le regole del diritto internazionale sul proprio territorio nazionale. Prima di farle valere a L’Aia.

Translated from Accouchement difficile pour la CPI