Chelas, piccola Africa che fa tremare i lisboneti
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Sara Fabbro"Sei stato a Chelas? Io ho vissuto a Lisbona per otto anni e non ho mai osato andarci" dice Melinda, 23 anni, ex studentessa che si è trasferita in Portogallo da Capo Verde con la sua famiglia. Melinda non è la sola a conoscere la cattiva reputazione di questo quartiere.
Capo Verde, Guinea, São Tomé, Zanzibar, Angola, Mozambico… Il Portogallo ha commesso molti errori in passato devastando le risorse di alcune nazioni africane, e ora ha un debito morale da saldare. Grazie al fatto che parlano portoghese e alla favorevole politica nazionale sull’immigrazione, molti africani si stanno trasferendo nel paese dei loro vecchi colonizzatori nella speranza di una vita migliore. In generale la società portoghese è ben disposta verso questi loquaci africani.
“Non c’è razzismo qui, soprattutto tra i bambini” dice Mais, una donna di 40 anni con in braccio la figlia Camille e seduta di fronte all’anziana madre Adelaide. Le tre generazioni di donne stanno in un minuscolo chiosco in cui Adelaide vende frutta e verdura per strada. La loro famiglia è venuta in Portogallo da Capo Verde trent’anni fa e ora vive sulla soglia della povertà guadagnando quanti più soldi può dalla vendita di oggetti ad altri abitanti del Chelas. Ma non si lamentano della loro vita qui. “Almeno Camille può andare scuola con altri bambini e noi qui ci sentiamo al sicuro" dice Mais in francese.
Dopo aver lasciato la metro della stazione di Chelas la prima impressione è quella di un quartiere ordinario: strade normali, tradizionali edifici portoghesi, persone sorridenti e il solito ingorgo di macchine. “Qui non è sicuro, specie dopo le 7 di sera, quindi è meglio non cercare guai perché potreste trovarli” avverte Jorge Barbarosa, agente di una stazione di polizia non lontana dall'ingresso della metro. “La tua macchina fotografica può sparire facilmente, quindi è meglio che la nascondi" Ci spostiamo verso sud. “Non andate di là!” ci urla dietro il poliziotto, “Non è un bel posto dove girare” concorda il nostro autista prima di scomparire rumorosamente nella puzza dei gas di scarico lasciandoci nel centro della parte africana della città.
Ora gli edifici sembrano leggermente diversi; sono grigi, opprimenti, abbandonati. Sembra che gli abitanti stiano oziando. A quelli che incontriamo che parlano francese o inglese non interessa essere intervistati. “Sono venuto qua con la mia famiglia dalla Guinea vent’anni fa” dice in francese Nelson, 64 anni, davanti a un negozio di generi alimentari locali. “Non ho mai pensato a come possa sembrare la nostra vita qui a Chelas. Semplicemente noi viviamo giorno dopo giorno cercando di evitare i problemi e di crescere i nostri nipoti come brave persone" In questo calmo, quasi noioso quartiere c'è solo un edificio che salta agli occhi. I muri viola, gialli, rosa, verdi e blu sono così esageratamente diversi dai dintorni che ne siamo attratti, come falene dalla luce. Uno stretto corridoio porta all’interno, l'atmosfera silenziosa di questo quartiere inibisce il nostro senso del pericolo così lasciamo la strada per esplorare che cosa c'è dietro il muro.
Cortile con sorpresa
Sembra di entrare in un’altra dimensione. Il cortile è vuoto ma soffocante, un lontano ritmo hip-hop proveniente da qualche finestra aperta rompe il silenzio. Clic! Scattiamo una foto e inizia il caos. Subito più di dodici ragazzi neri compaiono da diverse parti del cortile, nascondendo i volti nelle magliette, corrono verso di noi e gridano in portoghese, ci circondano e iniziano a spingerci cercando di prendere le nostre macchine fotografiche, urlando che siamo poliziotti sotto copertura. C’è una rabbia selvaggia nei loro occhi iniettati di sangue. Quando capiscono che siamo stranieri uno di loro inizia a gridare in inglese. Lottando per tenere le macchine fotografiche nelle nostre mani li convinciamo che ci siamo solo persi nel loro quartiere mentre lo stavamo visitando per conoscere le condizioni di vita delle persone. Finalmente li convinciamo mentre stanno in piedi a controllare che tutte le foto siano cancellate dalla memory card.
Mentre lasciamo l’edificio, la loro curiosità ci spinge a prendere l’iniziativa. Stringendogli la mano otteniamo un po’ di fiducia e iniziamo a fare domande sulle loro vite, sulle loro origini e sui loro problemi. Mostrando rispetto in qualche modo siamo riusciti a iniziare una discussione “Hai scattato una foto di due ragazzi che concludevano un affare di droga,” dice Dave, un giovane inglese che si trova qui per visitare la sua famiglia. “Questo è un posto dove loro vendono la roba per tutto il quartiere." Riguardo alla stazione di polizia proprio di fronte all’edificio Dave risponde che qui non hanno mai visto un poliziotto. “Non entrano dentro, hanno troppa paura di noi.” C’è qualche ragazzo portoghese bianco nel gruppo prevalentemente nero. “Siamo fratelli e sorelle, il colore della pelle non importa”, dicono. “Vivono nella stessa strada, vanno nella stessa scuola e affrontano gli stessi problemi, allora perché odiarsi? aggiunge Dave.
Tutto intorno i bambini parlano e giocano senza paura. I quattordicenni Melissa, Neuza e Ugu dicono che il Chelas è la loro casa. Non gli importa delle origini dei loro genitori e del colore della pelle. “Se vieni da qui, non devi avere paura di niente” dice Melissa. “Solo accettare e rispettare gli altri." L’ultima parola va al nome della strada sui cui due lati si trovano il negozio, la scuola, l’asilo, la stazione di polizia, i venditori e il chiosco di verdure: Avenida Joao Paulo II o Via Giovanni Paolo II.
Questo articolo è stato pubblicato sul blog Europeinmotion
Tutte le foto: © An-Sofie Kesteleyn
Translated from Chelas: not such a dodgy neighbourhood of Lisbon