Belgrado, i rom dentro ai container
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Francesca AgostiniIgnorata ma diffamata, numerosa ma impotente, la minoranza rom vive ai margini della società, sopravvivendo con gli scarti degli altri. I fantasmi della capitale serba sono stati allontanati dalle rive del fiume Sava, non molto lontano dalla lussuosa area ricca di hotel della Nuova Belgrado, e piazzati in “container da costruzione” nella periferia. Potrebbero presto scomparire del tutto.
Rifat sorride e allarga le braccia. “Benvenuti allo zoo!”. Il bagliore del sole di mezzogiorno è in parte deviato da un ombrello inclinato sostenuto da un tavolo di plastica attorno al quale siamo seduti. Si condividono bicchieri di limonata e pacchetti di sigarette, ma non è per niente facile. Appena qualche settimana fa, le autorità cittadine hanno deciso di sfrattare Rifat e un altro centinaio di persone da Belville, il più grande insediamento illegale di rom, la casa di oltre 1.000 persone. L'insediamento bloccava l'accesso diretto al nuovo ponte in costruzione sopra il fiume Sava. La loro nuova casa è qui in Jabucki Rit, a 13 km dalla città, in mezzo alla campagna, dove il silenzio è assordante e dove non c'è neanche l'ombra di un palazzo o di un lavoro.
Da queste parti le chiamano "unità abitative"
I funzionari cittadini hanno rifornito i rom di “unità abitative mobili”; si potrebbero chiamare “container metallici”. Sono circa di 6m2, con minor spazio in media di una cella, e spesso devono ospitare una famiglia numerosa. Ho appoggiato la mano sulla parete esterna di un container; è come toccare un bollitore caldo. Qualche giorno fa, la televisione di un anziano è esplosa per il troppo calore. Attraversando questo metallico Stonehenge, noto una parete schizzata di pittura bianca. Enver mi racconta che il mattino del primo Maggio, un gruppo di ragazzi coperti da maschere con le mazze da baseball in mano è arrivato al campo e ha imbrattato un lato del container con slogan razzisti e svastiche. “Alcuni di noi li hanno visti, ma non ci siamo avvicinati né lamentati. Se avessimo provato a rispondere, il giorno seguente l'intera città sarebbe venuta ad ucciderci”.
Nonostante le condizioni sanitarie siano chiaramente migliorate, la popolazione locale conduce un'esistenza insostenibile. Di recente una donna incinta ha affrontato un viaggio di 30 chilometri fino al paese più vicino dove una ONG fornisce del cibo. “Il bus si era rotto, ci ho impiegato tutta la giornata”, ci racconta. “Non possiamo lavorare qui, dovremmo forse mangiare l'erba?” Per evitare di finire nei container, i rom dovrebbero rispettare alcune condizioni, tra le quali figura il mandare i bambini a scuola. Al momento, i trasporti non lo permettono. In città, molti rom guadagnano raccogliendo e riciclando cartone e metallo, ma è impossibile farlo nell'isolato quartiere di Jabucki Rit. Di conseguenza si è diffuso uno stato d'animo di indifferenza e di disinganno.
Persone legalmente invisibili
Le cose potrebbero andare peggio. Altri sono stati mandati a Dren, a 20 chilometri da Belgrado. La somiglianza con il termine “drain” (fuga) pare appropriata, come spiega Jovana Vukovic del centro regionale per i diritti minorili. “In pratica è stata costruita su un acquitrino. Di recente sono stati invasi dalle rane! La gente non riesce a dormire dal rumore”. Anche se in questo caso l'umorismo lascia un sapore un po' agrodolce. “L'aver segregato i rom all'interno di insediamenti di container lontano dalla città fa sì che ci sia una maggiore necessità di aiuto sociale rendendoli, di conseguenza, più passivi”. Slavica Denic, segretario di stato del Ministero dei diritti umani e minorili, ha annunciato di recente che “la posizione dei rom in Serbia è migliorata significativamente durante il decennio della loro integrazione”. Danilo Curcic da Praxis controbatte: “in Germania nel 1957 si poteva probabilmente dire che le cose andavano meglio di dieci anni prima: ciononostante il problema non è ancora stato risolto alla radice. I rom a Belgrado sono individui legalmente invisibili. I tempi dello sfratto sono coincisi con uno sciopero nel centro di previdenza sociale, perciò si è verificato senza un controllo adeguato”.
"Quando l'intera nazione sprofonda nella miseria, quelli che stanno ai marginisono i primi a cadere"
Dall'altra parte della città in uno studio ricoperto di libri ci troviamo nell'ampia casa di Dragoljub Ackovic, il direttore del museo gitano a Belgrado. Una statua nero d'onice è stata messa ben in vista sulla sua scrivania: “un souvenir dell'Africa del sud”. Il museo è stato allestito nel 2009 ed ha ricevuto ottime critiche, ma da allora il palazzo è stato sabotato e non ha abbastanza finanziamenti. “È una battaglia continua con le autorità cittadine - dice Ackovic - Di recente ho avuto un attacco di cuore, causato sicuramente dallo stress”. Apparentemente, molti dei problemi riguardanti i rom sono dovuti alla mancanza di impegno e di rappresentanza politiche. Dragoljub si lancia in un discorso misto a denunce verso i suoi avversari politici ed elenchi di figure storiche con parentele gitane segrete (apparentemente William Shakespeare e Bill Clinton). "I rom poveri potrebbero coesistere con i cittadini di Belgrado, ma la transizione dal socialismo al capitalismo ha reso difficile per alcuni la vendita dei loro prodotti tradizionali di fronte alla competizione esterna. Molte persone lavorano nello smaltimento dei rifiuti e nel riciclaggio o semplicemente elemosinano in strada. Ho suggerito di istituire delle associazioni per gli operatori ecologici, ma la città non sta a sentire”. Alla fine dell'intervista mi viene dato un libro da lui scritto riguardo alla storia e alla cultura dei rom a Belgrado. Apro una pagina e leggo questa frase: “...quando l'intera nazione sprofonda nella miseria, quelli che stanno ai marginisono i primi a cadere”.
"Non vivrò mai in un container"
Nel frattempo a Belville, situata nella vera giungla dello sviluppo accelerato che è la Nuova Belgrado, alcune delle persone che vivono direttamente ai margini hanno una visione ben diversa rispetto a quella di alto profilo di Dragoljub. “Le persone come lui rappresentano i rom soltanto se ritengono di poterci ricavare del denaro”, dice Borka, uno dei pochi abitanti rimasti nell'insediamento non ufficiale, il cui futuro è incerto. “Ci sfruttano per poter guadagnare a livello politico e finanziario. Se davvero tiene a noi allora perché non ha visitato Belville neanche una volta?”. Certe volte le parole di Borka sono coperte dal rumore dei treni che passano sopra la testa, ma lei scuote la testa con rabbia. “Non vivrò mai in un container. Se proveranno a obbligarmi, farò causa alla città. O mi trasferirò in Belgio”.
Lascio l'insediamento, arranco in mezzo alla terra desolata fino alla via principale e mi imbatto subito con quello che sembra il set di un film ambientato nel deserto. Attraverso la recinzione riesco a intravedere un'ampia piazza con un vecchio tram e un'auto d'epoca circondati dappertutto da sfondi dipinti di edifici, uno dei quali è l'Hotel Moskva. È una replica della Terazije Square degli anni Trenta. “La Vecchia Belgrado nella Nuova Belgrado”, dicono. Guardando indietro verso le rovine di Belville, mi sembra una città che abbraccia il suo passato glorioso, rinnegando la sua realtà attuale e destinata ad essere infestata dai fantasmi per sempre.
Si ringrazia Senka Korać, di cafebabel Belgrado.
Quest'articolo fa parte di una serie di reportage sui Balcani realizzati da cafebabel.com tra il 2011 e il 2012, un progetto co-finanziato dalla Commissione Europea con il sostegno della Fondazione Allianz Kulturstiftung.
Foto di copertina: (cc) Mathieu Péborde/flickr;; texto, ©Andrew Connelly.
Translated from Belgrade’s Roma minority: pop them in a metal container