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Auschwitz was the best: la terza generazione di israeliani, palestinesi e tedeschi

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Cultura

Con il progetto teatrale Third Generation la regista israeliana Yael Ronen, in collaborazione con i drammaturghi Amit Epstein e Irina Szodruch, si sono lanciati in un esperimento, il cui debutto è avvenuto con un work in progress in occasione del Festival di Halle, Tel Aviv e Parma. Il 7 maggio la prima versione definitiva dello spettacolo al Berliner Schaubühne.

Sedie disposte in semicerchio nel misero spazio del palcoscenico berlinese. Dieci giovani attori, intorno alla trentina, siedono a piedi nudi indossando pantaloni da tuta color grigio e t-shirt molto aderenti con il logo 3G, riportato sulle sedie. Questi ragazzi non fanno parte di nessun gruppo terapeutico, sono i giovani della terza generazione, i nipoti dei sopravvissuti all’Olocausto, di palestinesi e nazisti allontanati, nessuno di loro oggi è direttamente responsabile delle azioni compiute tanto tempo fa dai loro nonni. Per la percezione di se stessi, tuttavia, nel contesto nazionale di turno, le esperienze della prima generazione contano ora più che mai. Nel 2008 Yael Ronen ha iniziato un work in progress che porta all’esasperazione le esperienze personali e i pregiudizi di tutti i soggetti coinvolti, proiettandoli sul palcoscenico attraverso scene di breve durata. Tramite questo processo, gli attori tedeschi, israeliani e palestinesi, in quanto rappresentanti della terza generazione, hanno preso consapevolezza di tutti i complessi e i sensi di colpa ereditati dal passato.

Killer di topi nazista

Al limite della commedia stand-up, il tedesco Niels viene fatto oggetto di insulti da parte del suo amico israeliano che lo definisce «killer di topi nazista», perché ha ideato una trappola per topi elettronica; viene presentata una parodia dei giovani ebrei, che con la loro classe si dirigono verso i campi di concentramento in Polonia per intrattenersi tra “olocausto e shopping” (“Auschwitz era il migliore”) e l’attore palestinese George si gode i suoi successi nei film israeliani, in cui gli viene data la possibilità di interpretare “con grande passione” il ruolo del terrorista fondamentalista. L’opera diventa qui ancora più impressionante perché, le esperienze personali prendono forma sulla scena e, in via del tutto eccezionale, si rinuncia all’ironia. Il rapporto critico sulla striscia di Gaza tra una madre e suo figlio, che a causa degli attacchi israeliani se la fa sotto dalla paura. Il giovane soldato israeliano, che davanti ad un palestinese vede sua nonna tedesca morta, dalla quale impara che tutti quanti vorrebbero vedere solo il suo sangue. E poi la conclusione. Nel corso dell’opera, malgrado la semplificazione di contenuti molto complessi, diviene tutto molto più chiaro: ogni posizione, ogni trauma trova la propria giustificazione. Non vi sono soltanto prospettive giuste o sbagliate. Alla domanda «chi è il colpevole?» tutti guardano il proprio vicino, alla domanda «chi è la vittima?», tutti guardano se stessi, e allora diviene così chiaro, come le categorie “vittima” e “colpevole” vengano stabilite a propria discrezione.

Intervista a Amit Epstein

Amit Epstein fa parte della terza generazione. L’artista è nato nel 1977 a Tel Aviv e dal 2003 vive a Berlino. Epstein, in veste di drammaturgo, ha portato in scena il progetto teatrale Third Generation.

Ma come è nato questo progetto?

©Christiane Lötsch«La prima fase del progetto è stata impostata sulla ricerca; gli attori coinvolti si sono recati in Israele, a Berlino e nei territori palestinesi e lì hanno intrattenuto varie conversazioni con terapeuti, giornalisti, politici e scrittori, che hanno una determinata opinione sul rapporto ebraico-tedesco o sul conflitto israelo-palestinese. La seconda fase è stata, invece, impostata sulla riflessione collettiva che è servita a trovare il modo per poter riprodurre sulla scena le esperienze personali. Così è nata l’idea di un semicerchio, proprio come quello che si crea all’interno di un gruppo di terapia, in cui ognuno fa la propria comparsa. Il contenuto delle singole scene è stato poi oggetto di altri cambiamenti durante il processo, in particolare dopo il recente conflitto di Gaza».

Che cosa significa essere israeliani, tedeschi o palestinesi della terza generazione?

«La prima e la seconda generazione hanno una propria idea sull’Olocausto e sugli eventi accaduti nei territori palestinesi. Possiedono una terminologia molto precisa e classificano tutto in base alle categorie “vittima” o “colpevole”. La terza generazione vive al momento una grossa discrepanza:da una parte, quello che è accaduto tanto tempo fa appartiene storicamente al passato, dall’altra però, tali eventi condizionano talmente tanto la loro vita e identità che difficilmente li si possono ignorare. La terza generazione non ha vissuto l’Olocausto o l’allontanamento dai villaggi palestinesi. Non sono più “vittime” o “colpevoli”, assumono altre posizioni, per le quali parlano e utilizzano un nuovo linguaggio e una nuova terminologia. Ogni gruppo ha il proprio modo di raccontare i fatti e non è sempre così semplice dire se quello è “giusto” e l’altro è “sbagliato”, proprio perché ogni modo di raccontare trova la propria giustificazione. La terza generazione utilizza semplicemente il proprio linguaggio».

Al termine della rappresentazione è previsto uno scontro violento tra tutti i gruppi coinvolti. Per l’applauso finale gli attori tornano sul palcoscenico con un braccio ingessato, una fasciatura intorno alla testa e un collare. Non esiste alcuna speranza per una risoluzione del conflitto?

«Ritengo che tutta questa situazione non sia un problema, per il quale sono convinto che esista una soluzione concreta. Non ci sarà mai una pacifica coesistenza. Quello che potrà esserci, è un contrasto permanente, una frattura perenne nel passato. Certe cose non possono essere “raddrizzate”. L’Olocausto non può prendere una “piega diversa”. Ma è possibile mantenere un dialogo costruttivo e riuscire a capire che dietro a ogni presunto nemico c’è sempre un uomo, possiamo accettare la sofferenza degli altri e comprendere che il dolore di chi ci sta attorno non ci “priva” di niente».

L’opera Third Generation andrà in scena dal 7 al 9 maggio al Berliner Schaubühne di Berlino.

Translated from „Auschwitz was the best“ - Die eigene Sprache der dritten Generation