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Attentati? Sì ma alla libertà di stampa

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Default profile picture ruth bender

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La guerra al terrorismo causa molte vittime collaterali. Non da ultime la libertà di stampa.

Subito dopo l’11 settembre 2001 il Presidente degli Stati Uniti d’America George Bush annunciò che un nuovo nemico era in mezzo a noi.

«Questo nemico tenta di distruggere la nostra libertà e di imporre il proprio pensiero». È un nemico invisibile che può nascondersi ovunque. Naturale, quindi, che la lotta contro questo nemico non sarebbe stata facile né per il governo né per i mass media. Ma in una relazione della Federazione Internazionale dei Giornalisti si osserva che «combattere una guerra priva di uno scontro militare diretto, di un obiettivo ben preciso, di confini ben definiti e di una tempistica certa porta inevitabilmente ad una limitazione, se non ad una sospensione, delle nostre libertà civili e dei principi che costituiscono l’ossatura morale della nostra società democratica». Nella lotta contro un nemico che cerca di «distruggere la nostra libertà» possiamo diventare noi stessi i carnefici di quella libertà che cerchiamo di difendere?

Perquisizioni al periodico Cicero

Combattere contro un nemico senza volto e senza un territorio ha reso necessaria la creazione di un nuovo tipo di guerra. Che secondo i nostri leader politici deve implicare un maggiore controllo sugli individui, una marcata restrizione della nostra libertà di parola e la facoltà per le forze dell’ordine di tenere in stato di fermo i sospetti terroristi per un tempo indeterminato. Vediamone un esempio. Il cosiddetto Terrorism Act è entrato in vigore in Gran Bretagna nel maggio 2006 con lo scopo di prevenire «l’esaltazione e la glorificazione del terrorismo». Uno scopo nobilissimo. Peccato che, come hanno fatto notare i suoi critici, se questo provvedimento fosse entrato in vigore negli anni Ottanta i sostenitori dell'African National Congress, allora considerata terrorista, che si battevano per l’abolizione dell’apartheid in Sud Africa, sarebbero stati arrestati ed incarcerati.

Ma quello britannico non è un caso isolato. Nel giugno 2005 il giornalista tedesco Bruno Schirra si è visto recapitare un mandato d’arresto per alto tradimento dei segreti di Stato. L’accusa è seguita alla pubblicazione di un articolo dello stesso Schirra, dal titolo “L’uomo più pericoloso del mondo”, sulla rivista politica Cicero. Che offriva un’analisi dettagliata della figura di Abu Musab Al Zarkawi, terrorista giordano latitante in Iraq, e citava ampi stralci di una relazione secretata dell’Ufficio Federale per l’Investigazione Criminale tedesco.

Cinque mesi dopo la pubblicazione dell’articolo la polizia tedesca ha perquisito la redazione della rivista senza mostrare alcun mandato, violando il diritto alla segretezza sancito dagli articoli 10 e 19 della Costituzione tedesca. Gli attivisti per le libertà civili ed i giornalisti si sono ovviamente, mobilitati.

La tesi della pubblica accusa contro Schirra si fondava su un cavillo legale, una scappatoia offerta dalla stessa legislazione tedesca. Secondo la Federazione Tedesca dei Giornalisti le perquisizioni non autorizzate nelle redazioni dei giornali e nelle abitazioni dei giornalisti stanno diventando una prassi comune in una normale indagine criminale. Bisogna ringraziare la sezione 353 del Codice Penale tedesco, la cui applicazione punisce chi favorisce o istiga la divulgazione di segreti di Stato dei quali le potenze straniere dovrebbero rimanere all’oscuro.

Il caso Schirra ha destato serie preoccupazioni per la libertà di stampa in Germania. E a ragione, perché questo caso va ad aggiungersi ad una serie di preoccupanti precedenti giuridici. Basti pensare che già nel marzo 2003 una sentenza della Corte Costituzionale tedesca ha autorizzato le forze di polizia ad intercettare le telefonate dei giornalisti che si occupano di casi particolarmente “delicati”.

E negli altri Paesi…

La Germania non è l’unico Paese ad attuare riforme legislative che mettono in serio pericolo la libertà di stampa. Nel 2005 svariati giornalisti in Francia, Italia, Belgio e Polonia sono stati oggetto di interrogatori, sequestro di documenti e perquisizioni. E nel maggio 2006 il Ministro degli Interni olandese, Johan Remkes, ha imboccato la strada spianata dalla sentenza dalla Corte Costituzionale tedesca. Dichiarando al Parlamento olandese che da quel momento in poi i servizi segreti nazionali sarebbero stati autorizzati ad intercettare le conversazioni telefoniche dei giornalisti. Ma la Federazione Internazionale dei Giornalisti non è rimasta in silenzio. E ha rivendicato con forza i propri diritti: «Mettere sotto controllo i telefoni, le e-mail, i fax e Internet non mina solo la sicurezza dei dati trattata, ma anche la facoltà dei giornalisti di raccogliere informazioni e controllare il sistema statale».

Nel giugno del 2006 il Governo britannico ha dichiarato di voler inasprire la legislazione esistente sul segreto di Stato. D’ora in poi i giornalisti particolarmente ficcanaso non potrebbero più divulgare informazioni riservate circa le decisioni politiche del governo. Non solo. I funzionari che hanno accesso ad informazioni considerate “sensibili” non potranno più sostenere di agire nel nome del pubblico interesse rendendo noti gli illeciti compiuti dal Governo o i provvedimenti illegali approvati dal Parlamento. Solo un mese prima, in Danimarca, i giornalisti Michael Bjerre e Jesper Larsen del quotidiano danese Berlingske Tidende sono stati arrestati e condannati a ben due anni di prigione per aver reso noto che i servizi segreti militari, prima di partecipare con le forze alleate statunitensi all’invasione dell’Iraq, avevano comunicato al governo danese che non vi erano prove certe della presenza di armi di distruzione di massa. Secondo il Codice Penale danese sono accusati di «aver pubblicato informazioni ottenute illegalmente da terzi».

L’ombra dell’auto-censura

La situazione peggiora di giorno in giorno. I giornalisti sono sempre più controllati e spiati, le loro fonti diventano sempre più esigue, l'accesso alle informazioni sempre più difficile. E Statewatchha fatto notare come il Consiglio dell’Unione Europea abbia ripetutamente negato ai ricercatori l'accesso a determinati documenti perchè la loro divulgazione «avrebbe seriamente intralciato il potere decisionale del Consiglio» su questioni riguardanti «le opzioni strategiche per la campagna antiterrorismo comunitaria». Ma come si capisce leggendo il testo integrale del documento, di cui Statewatch è riuscita ad entrare in possesso, le questioni in causa riguardano i diritti e la protezione dei rifugiati. Non è chiaro se tutti i documenti sottratti all’opinione pubblica fossero davvero così compromettenti…

È allo stesso modo preoccupante (anche se difficile da rilevare) il livello di auto-censura che i giornalisti si impongono, pressati dal pesante clima intimidatorio delle leggi anti-terrorismo. La vedette della CNN, Christiane Amanpour, ha ammesso che persino la sua emittente si sarebbe imposta una sorta di auto-censura durante la guerra in Iraq. Ma nemmeno in Europa è tutto rose e fiori. In un clima così teso, non possiamo escludere che sotto le bombe della lotta per la libertà questa stessa ne rimanga vittima.

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Translated from Terrorising the media?