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Attacchi preventivi, regressione collettiva

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Ottavio Di Bella

All’inizio alcuni credettero che l'orrore dal crollo del World Trade Center poteva nascere una politica estera americana migliore, più giusta, più cosciente delle sue debolezze e dei suoi eccessi.

All’inizio alcuni credettero che l'orrore dal crollo del World Trade Center poteva nascere una politica estera americana migliore, più giusta, più cosciente delle sue debolezze e dei suoi eccessi. Colpiti al cuore, gli Stati Uniti avrebbero forse capito che il tempo della sola difesa dei loro interessi era finito e che occorreva mettere in conto le aspirazioni di un mondo che avevano contribuito largamente a rendere più strettamente interdipendente. La guerra in Afghanistan ne fu una prima sferzante smentita, perché, al di là della legittimità di una risposta contestabile, era ben percepibile il fatto che tutto cià andasse contro il buonsenso.

Venne poi l'asse del male… Ben lungi dal cercare una migliore comprensione del fenomeno bin Laden e fara un'autocritica della politica americana, il manicheismo trionfante di George W. Bush dava indicazioni sul prossimo bersaglio. Ovvero l'Iraq e il suo potenziale in termini di armi di distruzione di massa, dopo essersi troppo lungo schernito delle risoluzioni dell'ONU.

Tutti conosciamo e apprezziamo in base ai nostri propri valori questa concatenazione e la retorica americana che l'accompagna. Per quanti ritenevano che un'altra politica estera americana fosse possibile, che sarebbe potuta nascere un’attenzione maggiormente critica dell'America verso sè stessa e sull’11 settembre, bisogna arrendersi all'evidenza, è l'ora dell'inquietudine. Perché a coloro che han seminato il caos nel suo seno, l'America si prepara a rispondere fomentando il caos nelle relazioni internazionali.

I terroristi sono ovunque…

Caos in Palestina anzitutto, dove il disinteresse manifesto dell'amministrazione americana per il conflitto, il sostegno semi-incondizionato al governo Sharon, e la posizione intransigente di ogni parte, una nella repressione, l'altra in quella del martirio – terroristico, cosa che non porta a nulla – hanno allontanato considerevolmente l'eventualità di una soluzione pacifica.

Caos terroristico in seguito, poiché, dacchè il signor Bush gli ha dichiarato guerra, il terrorismo ha partorito dei piccoli… E’ giocoforza constatare che oggi i terroristi sono ovunque, su tutti i fronti, di tutte le cause. E’ ben nota la difficoltà di giungere, nelle convenzioni internazionali contro il terrorismo, ad una definizione di questo termine. Nell’attesa, si tratta di una parola prendi-tutto che permette soprattutto alle autorità di delegittimare movimenti di opposizione e, all'occorrenza, di reprimerli più facilmente. Ed ecco quindi apparire terroristi nello Xinjiang, in Georgia, in Costa d'Avorio, nelle Filippine, senza che la denominazione di origine possa essere veramente controllata… Cucinata in tutte le salse, la lotta contro il terrorismo finisce per diventare indigesta, giustificando degli attentati ai diritti dell'uomo ed alle libertà individuali sempre più evidenti, anche nelle nostre democrazie. Questa confusione semantica, alibi di una coalizione eteroclita, segna durevolmente il dopo 11 settembre.

Attacchi preventivi e nuovo disordine mondiale

Caos strategico e giuridico infine, con la dottrina deagli attacchi preventive sviluppata dall'amministrazione americana a danno dell'Iraq. Questa volta, la realpolitik americana va troppo lontano. Per distanze e per forme. Non solo perché si mette in testa di far sloggiare Saddam Hussein con pretesti contestabili, ma soprattutto perché la dottrina messa in opera per giustificare questi attacchi è pericolosa. E carburante idoeno a generare disordine.

Anche un bambino capirebbe che colpire per primi per difendersi ha certamente un’efficacia temibile, ma pone problemi di reciprocità. In un tale logica, Saddam Hussein potrebbe colpire legittimamente preventivamente gli Stati Uniti la cui macchina da guerra è, in modo più o meno evidente, in marcia. Ma gli Stati Uniti rappresentano il Bene e l'Iraq il Male, e gli Stati Uniti sono la sola superpotenza e se ne deduce quindi il diritto di colpire. Utilizzata su scala globale, questa dottrina costituisce una vera regressione, un ritorno verso lo stato di anarchia permanente nelle relazioni internazionali.

Per uscire da questo stato, la comunità internazionale ha messo pazientemente in opera dei meccanismi di sicurezza collettiva di cui l'ONU, e più particolarmente il Consiglio di Sicurezza, è depositario. Il principio stesso della sicurezza collettiva risiede nell'interdizione dell'impiego o della minaccia dell'impiego della forza nei rapporti tra stati, eccetto i casi di legittima difesa, e le azioni coercitive autorizzate dal Consiglio di Sicurezza in base al capitolo VII della Carta.

Morte della comunità internazionale

Ciò che bisogna dire, riaffermare, gridare con forza, è che ciò che il signor Bush propone, non è niente di meno di una regressione, che un gigantesco passo indietro di un secolo, un ritorno agli arcaismi nelle relazioni internazionali dominate dai rapporti di forza bruta. Se gli Stati Uniti decidessero di passar sopra una risoluzione del Consiglio di sicurezza per fare la guerra in Iraq, significherebbe condannare questa istituzione, e soprattutto di andare contro i meccanismi di sicurezza collettiva dall'imperfetta efficacia, ma tali da rimanere uno strumento di pacificazione e di regolamentazione delle relazioni internazionali attraverso il diritto per cui la comunità internazionale non dovrebbe apssarci sopra. Questo significherebbe andar contro la nozione stessa di Comunità internazionale. Se la legittimità delle risoluzioni è contestata già dalla stigmatizzazione della politica dei “due pesi, due misure” in Medio Oriente, gli attacchi preventivi, illegali difronte al diritto internazionale, e fuori dalla cornice delle risoluzioni del Consiglio, sarebbero il colpo di grazia al ruolo dell'istituzione in qualità di garante della sicurezza collettiva. Facendo saltare questa cornice, gli Stati Uniti potrebbero destabilizzare ancor più le relazioni internazionali rispetto all'ipotetica minaccia che Saddam Hussein fa gravare sul mondo.

Innanzi a questo maggiore rischio, l'Europa si è rivelata incapace di parlare con una sola voce, come molto spesso in politica estera. Orfana di guerra, dovrebbe conoscere tuttavia il costo di un uso irragionevole della forza, alchè questa serva solamente agli interessi di chi ne fa uso. Davanti all'implacabile lezione di realpolitik, l'Europa dovrebbe essere capace di far fronte, per ribadire il suo attaccamento al diritto ed alla pace, nozioni che da cinquant' anni, ha saputo fare progredire sul continente. Più che mai, occorre che l'Europa abbia una voce. Affinché gli Stati Uniti non siano più i soli a parlar forte. Affinché smettano di dire il falso. Affinché comprendano che percorrono la strada sbagliata, e soprattutto che essi trascinano alleati e nemici con sè.

Translated from Frappes préventives, régression collective