5 motivi per cui Schengen non fallirà
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Veronica MontiIn sostanza, che si parli dell'euro o di Schengen, c'è in gioco una sola cosa: la fiducia. L'Unione europea è equipaggiata in molti modi per ripristinarla. Se l'euro in qualche modo è stato salvato, anche la crisi di Schengen può essere superata.
di Christian Freudlsperger
Sempre colpa dei greci! Sei mesi fa l'Eurozona si è trovata a pochi passi dalla Grexit. Era metà luglio, il Ministro delle finanze tedesco prima di quel fine settimana decisivo aveva preso in considerazione una possibile uscita del Paese, ovviamente solo temporanea. Sei mesi dopo si ripresenta una situazione simile: negli Stati dell'Europa settentrionale cresce l'irritazione nei confronti dell'Italia e della Grecia, a proposito della salvaguardia dei confini esterni dell'UE. Una delle proposte frequenti in questo dibattito è una "Grexit 2", stavolta però dall'area Schengen: e la Grecia rimane l'eterno capro espiatorio dell'Unione, evidentemente incapace di tenere in ordine le sue finanze e di controllare le sue frontiere.
Di fronte a questi argomenti Schengen e l'euro vanno in crisi. Ecco cinque tesi sulla questione Schengen-euro e sul perché, nonostante le brutte esperienze della crisi monetaria, per Schengen un po' di speranza continua a brillare all'orizzonte.
1. La UE si basa su accordi incompleti
Schengen o l'euro sono una peculiarità dell'establishment politico europeo e al contempo un suo difetto di nascita. Idee grandi, belle e importanti, già. Ma anche realizzate male. E ad un certo punto si arriva alla resa dei conti. La verità è questa: i problemi che alla creazione di Shengen e all'introduzione dell'euro non erano stati affrontati e che erano stati rinviati, non si sono risolti da soli, ma sono ricomparsi nel 2010 e nel 2015. Un'unione monetaria, ma non politica, e una moneta unica, senza una comune politica fiscale e sociale, alla lunga non hanno potuto funzionare.
Nel caso dell'euro si è accusato il trattato di Maastricht. Schengen è invece un compromesso non soddisfacente: ha creato un'unica frontiera condivisa, ma non accompagnata da un'effettiva protezione comune dei confini, né da direttive generali sull'accoglienza degli extracomunitari che intendono spostarsi all'interno dell'area europea. Nel gergo UE Schengen è definito "minimo comune denominatore".
2. Cooperazione è condividere rischi e guadagni
Ma a cosa stavano pensando i politici quando hanno creato l'euro e Schengen? Sicuramente la loro priorità non era l'idea romantica (ma incredibilmente astratta) di un'Europa senza confini e di un popolo unito. No, l'euro e Schengen avrebbero dovuto invece portare un guadagno molto concreto: la fine delle fluttuazioni monetarie, minori costi di transazione e quindi il logico compimento del mercato unico europeo e delle sue quattro libertà di base (libera circolazione di persone, servizi, mezzi e capitali). In questo sistema guadagni e rischi sono connessi: si tratta di un moral hazard, ovvero: l'accettazione dei rischi attraverso la partecipazione alla comunità, nella certezza che i costi saranno poi divisi tra tutti. Con un'unione monetaria e territoriale, le economie instabili e l'insicurezza dei controlli alle frontiere possono mettere in crisi il sistema nella sua globalità.
Chi ha scritto gli accordi ha pensato ad eventuali tutele? Il rischio di una crisi è stato negato e ignorato sotto l'illusione di un'unione economica (l'euro) e di una politica migratoria comune (Schengen). Per far fronte a questi prolemi nel caso della moneta unica si è stabilito il no bailout, mentre per salvare Shengen si è ricorsi al Trattato di Dublino, che prevede di rinviare i richiedenti asilo nel Paese dove è avvenuta la loro prima registrazione o il loro arrivo. Entrambe le soluzioni, soprattutto in tempo di crisi, portano alla stessa conclusione: il guadagno che nasce dalla cooperazione è condiviso, il rischio però resta a livello nazionale.
3. Anche chi coopera agisce in maniera egoistica
I problemi prima o poi vengono a galla. Nel caso di Schengen e dell'euro la fine del fragile status quo è stata provocata più che altro da fattori esterni. Quello che per l'euro è stato Lehman Brothers, per Schengen è la Siria. Di fronte a questi avvenimenti, i difetti di nascita dell'euro e di Schengen non hanno resistito allo shock. Di fronte a questa crisi pervasiva, anche i Paesi più cooperativi adottano misure di salvataggio: mantenere i guadagni che derivano dalla comunità e allo stesso tempo minimizzare il più possibile l'assunzione dei rischi.
L'arma retorica per ogni situazione diventa quindi: «È colpa tua!». I Paesi che prima non erano toccati direttamente da questi costi, ora li vogliono mantenere più bassi possibile: negano le debolezze del sistema e imputano la responsabilità della crisi ad alcuni Paesi cosiddetti problematici. Facile capire come prima la Germania, con la crisi dell'euro, e ora la Francia e la Polonia, con il fallimento di Schengen, abbiano reagito in un primo momento con la logica dell'assegnazione della colpa. Così si minimizzano i costi idividuali e definizioni come "greci falliti" e "tedeschi ingenui e buonisti" diventano parte del gergo dei negoziati.
4. Le istituzioni possono ristabilire la fiducia
Un aspetto positivo? In un sistema istituzionale come quello dell'Unione europea, è sempre possibile trovare delle vie d'uscita. Norme d'integrazione basate su decenni di cooperazione non possono essere smantellate da un giorno all'altro. I rappresentanti degli Stati membri si incontrano almeno due volte alla settimana, i ministri due volte al mese e i capi di Stato e di Governo almeno ogni due mesi. In tempi di crisi ancora più spesso. Parlare con gli altri, invece che sopra gli altri, è sempre il modo migliore per affrontare problemi di cooperazione.
Le istituzioni deputate fanno in modo che la comunicazione non si interrompa. Anche nel caso della crisi di Schengen, bisognerebbe quindi fare tesoro dell'esperienza dell'euro-salvataggio. Sarebbe ancora meglio se i capi di Stati e di governo si incontrassero più spesso. Solo attraverso uno scambio permanente e un dibattito continuo una crisi come quella di Schengen e dell'euro, che in fondo è soprattutto una crisi di fiducia reciproca, può essere superata. L'Unione europea ha alle spalle una decennale esperienza di misure anticrisi.
5. La trappola politica deve scattare
Un nuovo accordo è possibile se gli Stati che rifiutano la divisione dei costi si convincono che questa può portare a una cooperazione più profonda, e di conseguenza a dei vantaggi comuni. L'accordo può anche essere parziale. Almeno fino alla prossima crisi. Così è stato, e così è tuttora nel caso dell'euro: la Germania ha stabilito un limite riguardo la partecipazione al rischio collettivo con un meccanismo di stabilità (ESM) e un'unione bancaria. Potrebbe però anche tutelarsi da ulteriori richieste di assunzione di rischio, nonostante il no bailout.
Per quanto riguarda Shengen, la mancata cooperazione potrebbe avere ripercussioni sull'accordo di Dublino e dunque incrinare la redistribuzione solidale dei rifugiati. Questa volta è la Germania che spinge disperatamente verso una partecipazione ai rischi della cooperazione. Alla lunga i suoi sforzi dovrebbero essere ricompensati, ma la strada è ancora lunga.
La sottoscrizione di un nuovo accordo parziale sarebbe la soluzione ideale per Schengen. A questo scopo devono essere rispettate due condizioni. Innanzitutto, i costi della non partecipazione al rischio devono essere significativi ed applicati in modo realistico. I funzionari della Commissione di recente si sono impegnati a calcolare i costi di una possibile area "non-Schengen". Se la valutazione della Commissione dovesse riscontrare che i costi del ripristino dei controlli di frontiera sarebbero immensi, la reintroduzione di un confine tra la Germania ed i suoi vicini dovrebbe essere una soluzione credibile per essere davvero attuata e per funzionare. Avrebbe insomma lo stesso obiettivo della proposta di una Grexit a tempo determinato: costringerebbe l'Europa a prendere una decisione.
In secondo luogo, questo trattato ideale può funzionare solo nel caso in cui gli Stati membri agiscano in modo razionale. Fino ad ora, come nel caso della crisi dell'euro, è stato così. Ma ciò è accaduto con immensi sacrifici dal punto di vista politico-elettorale e soprattutto sociale. Cosa potrebbe succedere se ad una ipotetica vittoria elettorale dei populisti di destra alle elezioni francesi del 2017, una forza centrifuga di matrice ideologica prendesse le redini della zona Schengen? Donald Tusk, il presidente del Consiglio europeo, dà all'Unione solo due mesi di tempo per salvare Schengen. Chissà se ha azzeccato i calcoli, ma su una cosa certamente ha ragione: il tempo stringe.
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Cafébabel in collaborazione con Polis Blog pubblica una serie di contributi del think tank Polis180, tutti incentrati sui diversi aspetti e interrogativi di Schengen e sull'idea di un'Europa senza confini.
Translated from Fünf Gründe, warum Schengen nicht scheitern wird