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"Viva la libertà" o la politica italiana allo specchio

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Cultura

Quando la speranza non c'è più, bisogna inventarla”, così, citando Camus, afferma Roberto Andò, regista del film “Viva la libertà” uscito a febbraio nelle sale italiane, trasposizione cinematografica del suo libro “Il trono vuoto” (Bompiani) che sembra riflettere l'attuale situazione politica italiana, sebbene il libro sia stato pubblicato tre anni fa e il film girato quando le ultime elezioni

non erano ancora state pensate. L'arte ancora una volta coglie in anticipo quel che c'è nell'aria, svelando il romanzesco, e il ridicolo, della realtà e della politica.

Enrico Oliveri, impersonato da un eccezionale Toni Servillo, è il segretario del principale partito d'opposizione, leader di un ipotetico partito di sinistra in crisi. Contestato durante un congresso e sconfitto da un recente sondaggio, Enrico fugge senza lasciar tracce di sé a Parigi dalla sua vecchia fiamma, Valeria Bruni Tedeschi, nel ruolo di Danielle, amante di un'estate a Cannes e segretaria di edizione nel cinema. Il suo fedele collaboratore, Andrea Bottini, prova a riempire quel trono vuoto all'insaputa degli altri membri del partito con il fratello gemello del latitante, Giovanni Ernani, professore di filosofia affetto da una depressione bipolare.

La sottile allusione ai politici contemporanei, pontefici incapaci di far coincidere la propria persona con il proprio mestiere, è evidente nelle difficoltà di un uomo di potere in crisi, nel suo senso di inadeguatezza che lo porta a rinunciare alla carica.È il doppio per l'appunto, il filo conduttore di tutto il film, meccanismo drammaturgico antico portato alle estreme conseguenze nell'ingannare a tal punto lo spettatore da lasciarlo nella scena finale nel dubbio che i due fratelli siano solo i due volti della stessa persona. Uno, nessuno e centomila sono le persone rappresentate dall'uomo di potere come un teatrante in scena. In fondo "il cinema e la politica non sono così lontani: il genio e il bluff coesistono”, afferma anche nel film il regista asiatico, marito di Danielle, passeggiando lungo la Senna con Enrico.

Al comizio con Brecht

“l'alleanza più importante è quella che si fa con la coscienza della gente”, risponde con scherno Giovanni Ernani

E in questa messa in scena il fratello Giovanni, privo di ansie da prestazione e responsabilità, si muove con la disinvoltura di chi è libero di esprimersi, anche a costo di esser considerato pazzo. Ma poi, è veramente pazzo chi dice la verità con sfrontatezza? Chi parla tramite le parole di Brecht in un comizio e bofonchia un'aria di Verdi in riunione, chi riesce a far emozionare le persone con un linguaggio sì immaginifico, ma mai disgiunto dal pensiero? Perché se Enrico è immagine di quella politica-spettacolo, del politico in crisi che fugge di fronte alla paura dell'indifferenza, che vive un'astrazione, intrappolato dalla sua stessa immagine, a cui non resta che un linguaggio vecchio per comunicare idee stantie, suo fratello Giovanni è l'altro volto di quel Giano bifronte.

Giovanni si fregia della sua follia per esser libero di riportare la vita a quella politica alla deriva, lasciando che la cultura informi la politica di cui pare essersi dimenticata. È un grido di speranza quello di Giovanni, che porta una ventata d'aria nuova a una politica in agonia, esortando a ripartire, come diceva Brecht, da se stessi: “Non aspettare nessuna risposta oltre che la tua”. E un invito a non esitare ad appassionarsi di nuovo, riportando così la politica al centro della vita, una politica che si liberi di quella maschera e si mostri in tutta la sua naturalezza e verità per riavvicinarsi alle persone. Perché “l'alleanza più importante è quella che si fa con la coscienza della gente”, risponde con scherno Giovanni Ernani alla domanda di un giornalista.

Giovanni sembra incarnare il sentimento, laddove Enrico rappresenta la ragione in un costante scambio di ruoli, che vede poi inversamente il politico grigio e perdente rifugiarsi nel cinema e rituffarsi nella vita, e il fratello intellettuale mettersi a far politica. Quasi come convergenze parallele che ci lasciano fino alla fine nel dubbio che Giovanni ed Enrico non siano altro che un Dr. Jeckyll and Mr Hyde.

Essere o non essere

essere o non essere, questo è il problema. È meglio essere come se fossimo già spariti o sparire del tutto per tornare a essere?

Così, il film di Andò sembra essere una brillante risposta alla problematica del cinema d'impegno italiano che, da Il Divo di Sorrentino a “Il Caimano” di Moretti, si è chiesto come raccontare il tempo presente. E Andò racconta una storia con la libertà di chi osa dire ciò che gli altri non dicono e con l'eleganza dell'arte che sola suggerisce ciò che tocca allo spettatore cogliere. Film tanto più sorprendente per la precisione dei riferimenti da sembrare una risposta al dibattito che avviene al di fuori delle sale cinematografiche. Le allusioni sono chiare: dal disagio del potere o meglio dell'essere immagine del potere al dualismo interno di una sinistra in crisi su cui veglia l'immagine di Berlinguer, il cui ritratto dietro la scrivania del segretario si pone in momenti bui come una sorta di talismano nel ricordo del mito della politica “buona” cui è associato.

Il film è dunque un'eccellente lezione del travestimento dell'arte che porta in scena la realtà senza volersi scambiare per essa, in modo da farci riflettere con più leggerezza e libertà. E se lasciamo le sale con un senso di speranza, rimaniamo un po' assorti in quella riflessione di Giovanni Ernani nella scena in cui recita, rivisitando l'Amleto di Shakespeare mentre teatralmente ruota attorno ad un mappamondo per metà nell'ombra: “essere o non essere, questo è il problema. È meglio essere come se fossimo già spariti o sparire del tutto per tornare a essere?

Foto: copertina e nel testo (cc) pagina facebook del film "Viva la libertà"; trailer © 01distribution/YouTube