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Viaggio nella crisi dell’auto: “Noi futuri precari della Fiat di Melfi”

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Dopo l'annuncio del piano di riconversione di Termini Imerese, la Fiat ha fatto di nuovo parlare di sé: il 15 luglio, la produzione della grande Punto si è fermata a Melfi per qualche giorno. Nel Bel Paese ci si interroga sul futuro della casa automobilistica. Reportage dalla Sata di San Nicola di Melfi, una delle più grandi fabbriche Fiat con diecimila operai assunti.

Tra le divisioni dei sindacati e la confusione degli operai.

San Nicola di Melfi, anche conosciuta come Melfi, è una piccola frazione in provincia di Potenza, nel sud Italia, che conta all'incirca mille abitanti. Si trova al confine tra la Basilicata e la Puglia ed è nota come la sede di una delle zone industriali più grandi del Paese.

Operai come scolaretti

Sull'autostrada per raggiungerla basta fermarsi in un autogrill qualsiasi per rendersi conto che, chi si sposta verso Melfi, lo fa avendo ai piedi scarpe antinfortunio. Ovvero, a San Nicola si va vestiti da metalmeccanici. «Ci credo che Cristo si è fermato a Eboli, ce lo vedi tu ad arrivare fin qui?», dice Sergio svoltando a destra in direzione Barilla, un paesino a poche miglia da San Nicola di Melfi. Sergio è uno dei quasi duemila operai che ogni giorno arrivano in Basilicata partendo dalla Campania: «Quando hanno chiuso l'altra fabbrica per cui lavoravo, sei anni fa, alcuni di noi, i più fortunati, hanno avuto la possibilità di spostarsi a Melfi». Alla Fiat Sata, infatti, sono molti i lavoratori che giungono (e spesso vanno a vivere a Potenza) da altre regioni del meridione. Tanto che se si arriva ai cancelli dell'indotto durante il cambio di turno si ha l'impressione di essere fuori da un istituto scolastico ad orario di lezioni terminato. Gli uomini e le donne in tuta blu escono dalla fabbrica con uno zainetto in spalla e salgono sui pullman diretti a Napoli o a Foggia.

Lo spauracchio di Termini Imerese

Al primo cambio di turno, quello delle sei del mattino, l'azienda distribuisce copie del quotidiano La Stampa: «Lo leggo ogni giorno, pure se i miei colleghi dicono “Cosa le guardi a fare le notizie: questo è il giornale dei padroni!”. Oggi, per esempio, parlano della chiusura dello stabilimento siciliano nel 2010 (in realtà il Lingotto prevede di terminarvi la produzione di auto entro il 2012, ndr). Marchionne dice che non c'è soluzione alternativa. Posso sapere io se c'è o non c'è una soluzione alternativa?». Se ne discute, in vista della prossima assemblea sindacale, anche nel piccolo bar, aperto ventiquattr'ore su ventiquattro, a pochi metri dalla fabbrica. «Qui c'è poco da esser sereni, non è scontato che a chiudere sia solo Termini Imerese. Anche la Fiat Sata corre dei rischi. Continuano a ripetere che è la crisi, ma lo sa cosa dico io? Sono trent'anni che lavoro per loro e sono quarant'anni che sento parlare di crisi.Sono cicli di produzione in cui le difficoltà sono date dalla quantità di automobili rimaste invendute. È crisi ogni cinque anni, insomma», spiega Vincenzo Russo, il rappresentante del sindacato indipendente Failms. Il piazzale della Sata è pieno di Grande Punto, l'automobile qui prodotta, Grande Punto tre porte, Grande Punto cinque Porte, Grande Punto Dynamic, T- Jet, modello blue per i Carabinieri, a migliaia in tutto.

I sindacati: «Non ci divideranno»

Gli operai che devono timbrare il cartellino delle quattordici camminano verso il cancello B passandosi l'ultimo volantino del sindacato “Dal disastro economico colposo al disastro economico premeditato” nel quale i lavoratori sono invitati a mobilitarsi. «Il problema sta nel fatto che qui, nello stesso stabilimento, convivono realtà economiche molto differenti: c'è l'operaio monoreddito che è pure di un'altra regione e c'è l'operaio che ha più redditi, o, infine, il profilo del lavoratore del luogo, lucano che, oltre al posto in fabbrica, ha anche una proprietà terriera e vive tranquillamente».Foto: doyoubleedlikeme/ flicr Quella della solidarietà tra operai è la realtà più complessa con la quale il sindacato si confronta da mesi. Da quando, proprio durante gli accordi tra Confindustria e Governo, due dei tre sindacati – Cisl e Uil – firmarono senza l'appoggio della Cgil. «Da allora non hanno fatto altro che allontanarci, ci stanno dividendo dall'interno e una concertazione che tuteli davvero gli operai diventa sempre più complicata. Gli operai stessi non se ne rendono conto, sembrano quasi disinteressati. Gli parli di delocalizzazione, degli indotti che la Fiat ha all'estero – come quello polacco o serbo – e loro si preoccupano del “Turnino”». Il famoso “turnino” è, in realtà, un modo ingegnoso per ridurre i tre turni fatti nelle industrie, allungando i primi due per far gradualmente sparire quello notturno, pagato più degli altri (ndr). «La verità è che siamo nel caos puro. Da Torino a Palermo nessuno sa cosa accadrà in futuro».

Tedeschi e americani possono aspettare: l’Italia prima di tutto

Nel frattempo qualcuno va in cassa integrazione, qualcun altro in mobilità e ad altri non vengono rinnovati i contratti a tempo determinato. «Sono diverse le categorie di lavoratori da rappresentare. L'unica certezza è che ognuno sta perdendo qualcosa. Adesso, per esempio, a Melfi cosa succede? Invece che tenere gli operai in cassa integrazione li fanno entrare a timbrare il cartellino e poi li rimandano a casa per mancanza di lavoro. Non li pagano e dandogli l’illusione che nulla accada», continua Russo. Tra i sindacalisti, soprattutto quelli autonomi, si cerca di restare calmi dopo quello che qui hanno battezzato “Il caso Innocenza”. «Tonino Innocenza è un vecchio sindacalista, ha fatto tanto per questa fabbrica. Qualche mese fa lo hanno licenziato accusandolo di attività sovversiva. Con lui altri due nostri colleghi. A noi dell'accordo con gli americani e i tedeschi interessa relativamente, vogliamo sapere cosa sta accadendo nel nostro Paese. Aspettiamo risposte».

Sergio racconta che ha messo anche lui una bandiera di protesta sul viale che porta all'ingresso della Fiat Sata dove, da qualche giorno, sono stati montati stand di mobilitazione ed informazione: «Ritorneremo ai ventuno giorni di sciopero del 2004 se sarà necessario. Lotteremo per il diritto al lavoro, o anche, per il diritto a sapere se, in realtà, il posto che hai lo hai già perso».