Vado o torno? Il dilemma del migrante
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Adriano FaranoOrmai è un rito. L'aereo deve prima fermarsi e poi, mentre gli altri si precipitano alle cappelliere, estraggo la scheda francese e la sostituisco con la sim italiana (Omnitel, ricordate?). Ricorda gli alzabandiere, quando un paese sostituisce un altro nelle forze internazionali. Rieccomi qui. Napoli, aeroporto di Capodichino. Bentornato, mi dicono gli amici.
Ma nella terra di origine si va o si torna? Tra noi babeliani, figli (nomadi) della eurogeneration le scuole sono due. C'è chi segue la ragione: ormai la mia vita è a Parigi, mi sforzo a dire. Io vado a Cava. E c'è chi si lascia scappare un torno, spesso percepito come simbolo di debolezza, come se il viaggio prima o poi dovesse finire nell'Itaca che tutti noi un po' coltiviamo dentro. Serbandone il ricordo, parlandone il meno possibile, mitizzandola sempre.
Per anni ho voluto dire io vado a Cava, non ci torno. Sono ormai quasi dieci anni che non ci vivo. A Parigi abito da cinque anni, sto mettendo radice. Ma poi posso usare lo stesso verbo - andare - che uso per tracciare la mia rotta per Tallinn o La Havana? Forse lo inventeremo, un giorno, un "verbo di movimento" vero e proprio, figlio bastardo dell'andare e del tornare.
P.S. Scusate, rincuoratemi: sono l'unico a farsi queste paranoie?
Translated from Hinfahren oder Heimkommen? Das Dilemma des Migranten