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Uno spettro si aggira per la Spagna: chiede più soldi e parla catalano

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Politica

Il progetto del nuovo Statuto della Catalogna sta dando parecchio da fare a Zapatero. Ma è così rivoluzionario come lo si racconta?

Lo scorso 27 dicembre sono scaduti i termini per presentare gli emendamenti allo scottante progetto di riforma dello Statuto d’autonomia della Catalogna, approvato dal Parlamento catalano a larga maggioranza. Il progetto punta a rinnovare lo Statuto approvato nel 1979, frutto dei complessi compromessi politici degli anni in cui la Spagna cercava di aprirsi la strada verso la democrazia.

Dopo venticinque anni il nuovo Statuto aspira a una profonda evoluzione nei rapporti tra Stato centrale e Catalogna, e contiene molto di più che una riforma del sistema di finanziamento: basti pensare alla definizione della Catalogna come “nazione” o alle riforme nell’amministrazione della giustizia, per non parlare poi degli aspetti linguistici. Sicuramente, però, il nodo economico è uno dei più difficili da sciogliere, dato che la proposta catalana supporrebbe, se approvata, un cambio radicale nella particolare architettura finanziaria dello stato spagnolo.

Un sistema asimmetrico che lascia qualcuno scontento..

Attualmente, infatti, esistono in Spagna due sistemi paralleli di finanziamento degli enti territoriali: quello forale, valido per i Paesi Baschi e la Navarra, e quello comune, in vigore per tutte le altre comunità. Nel primo sistema, di tipo confederale, le comunità autonome riscuotono tutti i tributi e viene ceduta allo Stato solo una quota, stabilita ex ante, corrispondente ai servizi comuni assicurati da Madrid (ad esempio nel settore della difesa). Nel secondo sistema invece i tributi vengono riscossi dall’agenzia statale, che provvede poi a ridistribuire le risorse secondo una serie di criteri più o meno trasparenti, che puntano teoricamente a riequilibrare le differenze di reddito interregionali.

Paradossalmente, mentre nel sistema forale non esiste affatto ridistribuzione, nel sistema comune il problema è l’opposto: la scarsa trasparenza (anche se dei passi avanti sono stati compiuti negli ultimi anni) nella ripartizione dei fondi dal governo centrale alle comunità autonome fa sì che regioni con un basso reddito pro capite – quali l’Extremadura e la Castilla y León – si ritrovino alla fine con più risorse rispetto a regioni più ricche come la Comunitat Valenciana, le Baleari o, appunto, la Catalogna.

Le richieste catalane cercano di sanare questa situazione capovolgendo l’attuale sistema: i tributi verrebbero riscossi da un’agenzia autonoma, che restituirebbe al governo di Madrid una quota in base ai servizi comuni (come nel sistema forale), più un’ulteriore quota di solidarietà (ovvero di ridistribuzione), in base a precisi criteri previamente stabiliti bilateralmente. Quello che sembra un vero e proprio ammutinamento non è altro che un sistema ispirato al modello tedesco, nel quale i tributi sono riscossi a livello regionale, e dove la classifica dei Länder (le regioni tedesche) in base alle risorse disponibili pro capite non può essere modificata dalla ridistribuzione. Ovvero, la più ricca resta quella con più risorse, la seconda rimane la seconda con più risorse, e così via.

In altre parole, la proposta catalana è diretta verso una riforma in senso federale delle relazioni fra Stato e regioni in Spagna, e dunque nulla di scandalosamente nuovo: il problema nasce semmai dal fatto che si tratterebbe di una riforma “imposta” da una delle comunità al resto, senza un dibattito e un accordo unanime che dia legittimità ad un nuovo sistema. È il grave dilemma del partito socialista al potere, che valuta il rischio di perdere il serbatoio di voti catalani per ascoltare le voci, interne ed esterne, che chiedono di continuare, ancora una volta, con la strategia dei piccoli passi. Intanto Mena Aguado, un generale dell’esercito spagnolo, è stato arrestato lo scorso 7 gennaio: aveva infatti invitato le sue truppe ad intervenire se la Catalogna otterrà un grado d’indipendenza che «oltrepassi i limiti costituzionali».

Chi comanda e chi spende nelle regioni in Italia e Gran Bretagna

In altri paesi europei il dibattito sull’autonomia e il finanziamento delle regioni è sempre vivo, anche se gli scenari sono spesso diversi. Un esempio è l’Italia, paese con un forte peso del governo centrale, dove le regioni si finanziano attraverso la compartecipazione in alcuni tributi (si veda ad esempio l’imposta sulle persone fisiche) e la possibilità di aumentare, in alcuni casi, le aliquote sulle imposte. Tuttavia, malgrado il discorso apparentemente federalista di partiti come la Lega Nord, ultimamente il governo ha richiamato all’ordine gli enti regionali e locali, congelando i loro margini di manovra sulle imposte, e imponendo severissimi limiti alla loro capacità di spesa attraverso la riduzione dei trasferimenti. Tutto in nome di un ipotetico Patto di stabilità che l’Italia, in realtà, non rispetta da anni.

Il risultato? Invece di assicurare autonomia fiscale, si garantiscono privilegi per le regioni più ricche (Lombardia in primis) e tempi duri per tutte le altre.

Particolare è invece la situazione in Gran Bretagna, paese tradizionalmente centralista e con un forte peso delle contee (che gestiscono competenze chiave come la pubblica istruzione), ma con la recente tendenza verso un approfondimento del regionalismo, che vede la Scozia all’avanguardia con l’istituzione di un suo parlamento nel 1998. Se l’appetito vien mangiando, ecco allora che gli scozzesi vogliono più autonomia nella gestione delle imposte, con l’appoggio del leader conservatore David Cameron, che ultimamente non si dichiara affatto contrario all’idea di fare della Scozia un paradiso fiscale britannico.

La Scozia, il Galles e l’Irlanda del Nord hanno intrapreso la strada della devolution nel 1998. Ma nel novembre 2004 il 78% della popolazione dell’Inghilterra nordorientale ha votato contro la proposta di un parlamento proprio, generando così scompiglio a livello governativo.