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Un’Europa angosciata dal “pericolo giallo”

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Eleonora Palermo

«Quando la Cina si desterà, la Terra tremerà», sosteneva Napoleone, che eppure sembrava non temere nessuno. Ma la paura dell’Occidente verso la Cina ha radici antiche.

Nella Parigi del maggio 1968, i maoisti, numerosi e organizzati dietro la figura di Jean-Paul Sartre, facevano tremare la Francia gollista: quell’anno di “barricate” venne fuori dal pensiero rivoluzionario figlio di quel marxismo-leninismo che, da New York a Praga, diede vita al concetto di Grande Maestro, al fine di rinnovare gli strumenti di lotta al capitalismo. Un’epoca in cui il “pericolo giallo” si tingeva di rosso. La Cina, sorella minore dell’Urss, mentre viveva la sua seconda giovinezza all’insegna di un comunismo piegato dal peso dello stalinismo, aveva in grembo serie minacce: fare crollare le basi delle società occidentali riattualizzando la lotta di classe, rischiarata dall’aurea di nuovi valori agli occhi dei giovani pronti a scendere in strada.

Una potenza economica senza scrupoli

Altri tempi, altre usanze. Un’ondata di panico si è abbattuta sull’Unione Europea nel gennaio scorso, in seguito all’abolizione degli Accordi multifibre, istituiti nel quadro dei negoziati in seno all’Organizzazione Mondiale del Commercio (Omc). L’importanza di questi accordi è dovuta al fatto che segnano la fine delle tasse imposte dai Venticinque alle importazioni tessili dalla Cina. Peter Mandelson, Commissario europeo al commercio, ha dichiarato nell’aprile 2005: «ci sono ragioni per essere preoccupati, l’Europa non può restare inerte».

Questa costante nella paura dell’”Impero Centrale” è protagonista d’ironici soprassalti: trent’anni fa nemica dichiarata del capitalismo occidentale, oggi mostro emergente da quello stesso capitalismo e capace di far rabbrividire l’Europa. Diretta oggi con il pugno di ferro da un’amministrazione comunista ma ormai solo nel nome. Una Cina convertita ai principi dell’economia di mercato che incarna l’immagine terrificante di un ordine ultracapitalista globalizzato guidato dal must del “profitto ad ogni costo”, noncurante dei principi democratici più elementari, del rispetto dei diritti dell’uomo e delle condizioni di lavoro dei salariati.

Cina, cattiva o buona maestra?

Se la Cina è stata regolarmente protagonista dell’assalto delle critiche, che su di essa hanno concentrato tutte le inquietudini e i mali imputabili alla globalizzazione, bisogna anche constatare che in pari misura suscita gli elogi dei critici. Questi ultimi, infatti, lodano senza remore le sue prestazioni economiche e la sua crescita sostenuta, stimata intorno all’8% annuo dal 1978 ad oggi.

Manuel Olle, Professore del Dipartimento di studi asiatici dell’Università Pompeu Fabra di Barcellona, nella sua recente opera intitolata Made in China, evidenzia come l’immagine della Cina data dai media tenda ad oscillare tra l’esaltazione e il biasimo. A seconda che si focalizzi l’attenzione sulla rapidità del suo sviluppo economico o sulle ineguaglianze sociali che ne derivano e la persistente latitanza di libertà politiche.

Secondo l’autore queste variazioni seguono molto fedelmente la direzione del vento che soffia dagli Stati Uniti verso la Cina. Anzi, coincidendo con il viaggio negli Usa di Yang Zemin (in seguito Presidente) nel 1997 e la visita che l’allora Presidente americano Bill Clinton gli ricambiò l’anno successivo, la stampa americana e di riflesso anche quella europea sembrano scoprire improvvisamente che la Cina non era né una minaccia né armata di cattive intenzioni. Come invece era sembrata essere durante il dramma di piazza Tienanmen nel giugno 1989, quando la repressione dei disordini studenteschi da parte dell’Armata causò la morte di 1.400 persone e oltre 10.000 furono i feriti.

Ma di chi è la colpa?

Due sono le cose necessarie per evitare di cadere nella spirale dei luoghi comuni mediatici. Innanzitutto, quando chiamiamo in causa il “pericolo giallo” e colpevolizziamo la Cina per essersi trasformata in leader economica d’un mondo senza regole, visto che immette nel mercato internazionale prodotti a prezzo irrisorio, non dobbiamo dimenticarci che molte di queste industrie “malefiche” che utilizzano la manodopera cinese con condizioni di lavoro inaccettabili sono in realtà aziende basate su capitali occidentali. Un esempio? La fabbrica di scarpe Timberland, il cui nome in Cina è Kingmaker, impiega i suoi 4.700 operai (l’80% dei quali sono donne) e un numero imprecisato – ma comunque significativo – di bambini per un salario di quarantacinque centesimi all’ora, sedici ore al giorno. Anche la Puma fa lavorare i suoi dipendenti sedici ore al giorno nella città cantonese di Dongguan e concede “addirittura” un giorno di riposo ogni due settimane.

Seconda cosa: la Cina è talmente grande, complessa e contraddittoria che possiamo presentarne da un momento all’altro delle versioni ugualmente stereotipate ma totalmente opposte, senza che ruisultino false. Ma in ogni caso circoscritte a realtà alquanto riduttive.

Translated from L’Europe et l'angoisse du « péril jaune »