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Una, nessuna, centomila culture: a dialogo con Zygmunt Bauman

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Firenze

"Sociologo", "polacco" e "cultura" sono tre parole che dovrebbero indurre l'organizzatore di un evento a prenotare una sala molto piccola. Ma non se si tratta di un pensatore divenuto "pop": Zygmunt Bauman è stato a Prato per parlare di cultura. E ha fatto il pieno di pubblico.

Come districarsi nel campo minato della società? È questo il fulcro attorno a cui ruota “Changes”, un ciclo di incontri che chiama artisti, architetti, scrittori, critici d'arte e economisti a riflettere sulle trasformazioni che attraversano la contemporaneità. La settimana scorsa è stato il turno di “Quale cultura?”: un dialogo con il sociologo polacco Zygmunt Bauman, noto al grande pubblico per la sua idea di modernità “liquida”, paradigma di un'epoca soggetta a incessanti mutazioni che ridefiniscono continuamente il contesto sociale. Come un fluido che cambia forma.

Siamo al Centro per l'Arte Contemporanea Luigi Pecci di Prato: un'enorme spazio bianco e ancora vuoto ― in attesa della fine dei lavori di ampliamento ― accoglie un flusso continuo di centinaia di persone. Posti a sedere esauriti, ci si sistema per terra. Il pubblico è sicuramente specialista ma anche molto vario: ci sono studentesse universitarie, quasi in veste di groupie del sociologo novantenne; professionisti; insegnanti; ancora studenti; altri giovani e meno giovani.

Il libretto delle istruzioni

La cultura di cui si parla non è solo teatro, musei e letteratura: quella materia con cui “non si mangia” ― secondo l'infelice battuta pronunciata dall'ex ministro Tremonti. È qualcosa di più latente e pervasivo, ma altrettanto pratico. Le persone hanno bisogno di apprendere le competenze per riuscire a vivere nella società: ecco, la cultura è sia l'insieme di relazioni e azioni che stabiliscono le “regole del gioco”, sia il “libretto d'istruzioni” stesso. «È qualcosa che s'impara, ci viene insegnata da bambini», spiega Bauman, anche se «gli essere umani hanno vissuto la maggior parte della loro storia senza neppure sapere di averla». Questa nozione di cultura è apparsa nei vocabolari illuministici come «missione per innalzare le persone», per il progresso.

Non si “mangia”, ma si “consuma”

La cultura include anche gli “oggetti culturali” ― siano essi immateriali o tangibili ― creati da questo sistema di relazioni, ed esiste un consumo e una distribuzione esplicita dei prodotti culturali. In parte è sempre accaduto, per esempio «gli artisti sono sempre stati pagati per poter sopravvivere», dice Bauman, «anche Michelangelo». La novità è che oggi si partecipa a una rete globale di distribuzione e di comunicazione, così complessa ed estesa che ha “commercializzato” anche le sfere della cultura o delle relazioni. Prima questi ambiti non erano che bisogni umani, ora un po' tutto passa attraverso il mercato: «È molto difficile pensare a un qualsiasi dono che venga dal cuore, che non richieda di andare in un negozio e comprarlo», articola il suo pensiero il sociologo. «Non si dedica più tempo alla persona che si ama, non la si ascolta in modo affettuoso», così «almeno una volta l'anno, si festeggia la festa della donna, il Natale… per compensare i molti mesi di negligenza». Anche il desiderio di intrattenimento è stato “scoperto” dalla società dei consumi: «Le accademie d'arte soltanto negli Stati Uniti producono molti più artisti di quanti non ne siano vissuti nel Rinascimento». Perché? «Semplicemente non esisteva un mercato così vasto».

Non una sola cultura

Lo sviluppo ha portato a società più complesse, che si traducono in una differenziazione sempre più articolata dei ruoli sociali: «Il tipo di cultura che noi siamo non è altro che differenziarci dagli altri», afferma Bauman citando il sociologo francese Pierre Bourdieu. È tramontata definitivamente anche l'idea di cultura elitaria: «Oggi siamo circondati da molti modi diversi di vivere, nessuno migliore degli altri», chiarisce.

La modernità, oltre a essere liquida, è diventata densa. Densa di significati e di conoscenze. Resa opaca ― cioè più difficile da comprendere ― a causa della rete intricata di relazioni, amplificate e globalizzate dai media digitali. In poche parole: siamo “affollati” di tante culture diverse. Interrogato sul tema della convivenza con gli stranieri presenti nelle nostre città, Bauman risponde che assistiamo a una «multiculturalità incurabile»: oggi si è «stranieri per tradizioni, preferenze, lingua» e, per la prima volta, si vive stabilmente con queste differenze. «I nostri antenati nel XIX e XX secolo non consideravano il problema di vivere permanentemente con individui diversi», spiega, «perché le differenze tra persone sembravano essere temporanee, gli stranieri erano pochi e dovevano diventare velocemente come noi». Ma nel mondo di oggi non è praticabile questa assimilazione, e non esiste un tasto “Delete”, come dice Bauman, per eliminare ciò che non fa parte della nostra cultura.

Il dialogo come risposta alla complessità

«Servono competenze per vivere in questa situazione, non chiara, confondente, anche paurosa». La risposta, secondo il pensatore polacco, è sviluppare e rendere popolare «l'arte del dialogo», evitando l'ideologia ingannevole e pericolosa del multiculturalismo, «secondo cui ogni cultura, in quanto diversa, ha il diritto di vivere secondo le proprie regole». La multiculturalità ― concetto diverso ― implica invece un dibattito aperto, la critica reciproca e la condivisione. Raramente si cerca di raggiungere davvero una comprensione reciproca e la coesistenza. Per farlo, spiega il sociologo, bisogna porsi senza pregiudizi, pronti a subire anche quella che è definita «un'umiliazione», laddove esiste il rischio di cadere nel torto o in contraddizione. Infine serve cooperazione: «Non è una competizione dove si lotta per vedere chi vince e chi perde», tutti devono trarne un beneficio al netto dei costi.

Esistono anche delle criticità: «Non è detto che si trovino partner disposti al dialogo. E i nostri problemi oggi sono globali, ma i nostri mezzi sono locali», troppo limitati in un mondo di interdipendenze. Tuttavia imporre il proprio punto di vista con la forza presenta un rischio ancora più grave, conclude Bauman: «Porterebbe a un accumulo pericoloso di aggressività. Come in un campo minato: si è sicuri che prima o poi potrà esserci un'esplosione, ma non si sa dove o quando».