UNA DITTATURA DI SUCCESSO
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Conosciuta come il Buco Nero d'Occidente, il Paese Fantasma o la Korea del Nord d’Europa, la Bielorussia appare un paese calmo e placido fermo ai tempi dell’unione sovietica, e lo è.
Dittatura crudele, ma non così tanto. Giornalisti e attivisti sono censurati, espulsi dal paese, dalle università, licenziati dal lavoro, arrestati e picchiati, ma tutto sembra in perfetto ordine; il cibo è buono, la gente simpatica e i mezzi pubblici sono sempre in orario. La Bielorussia è una tirannide che funziona.
Parafrasando Pasolini, è come se i bielorussi avessero barattato le loro libertà civili con la ricomparsa delle lucciole.
I colori di un paese in bianco e nero
A prima vista sembra uno stato a metà tra la Polonia e la Russia di 15 anni fa; ma la verità è che la Bielorussia si è fermata al futurismo sovietico anni '20. Le fermate della metro di Minsk sono state progettate sui bozzetti di Metropolis; il resto dell'urbanistica è una brutta copia in calcestruzzo di Le Corbusier.
Sarà per il suo clima rigido, che regala solo pochi giorni di cielo sereno l’anno, ma questo è un paese che sembra il set di un film in bianco e nero.
Minsk è imponente. E’ la grandeur immaginata nel primo '900, ma senza le magnifiche sorti e progressive.
Le sue dimensioni sono sproporzionate. Accostati agli enormi palazzi e ai boulevard a 8 corsie i suoi abitanti appaiono ancora più piccoli e fragili. Ma è una grandezza quasi funebre quella che si percepisce; dal granito cimiteriale che riveste gli edifici, ai garofani in vendita nei fiorai dei sottopassaggi.
Se mio nonno resuscitasse, qui si sentirebbe perfettamente a suo agio.
L’ordine e il rigore di questa città mi ricorda infatti i miei nonni, cresciuti nella campagna italiana degli anni '40. Minsk è come la loro casa acquistata con i risparmi di una vita, anzi, come la loro sala da pranzo, che doveva essere sempre impeccabile, a differenza della cucina dove lavoravano e mangiavano ogni giorno.
Minsk è un grande salone di rappresentanza che in 50 anni non ha accumulato un granello di polvere, ma che il nonno tiene chiuso a chiave in attesa degli ospiti.
L'ossessione per l'ordine qui è quasi nevrotica, compulsiva, e non si limita alla pulizia delle strade; in tutta la Bielorussia è raro incontrare clochard e mendicanti. Deformità fisiche, povertà e disabilità sembra siano state debellate, o semplicemente poste fuori legge.
E' come se il regime volesse mondare le città per ripulirsi la coscienza, oltre che per fare bella figura con i forestieri.
Più che il paese dell’utopia, Dranikiland(come la definisce Vladimir Tsesler) è il paese senza entropia, dove tutto rimane inesorabilmente uguale nei decenni. Ci sono statue di Dzerzhinsky (tra i peggiori criminali della storia) nei parchi, e i servizi segreti si chiamano ancora KGB.
Come i soldati giapponesi dispersi nelle isole che continuavano a stare all’erta 30 anni anni dopo la fine della guerra, la Bielorussia è rimasta fedele alla linea, nonostante l'opposta direzione presa della storia, e l'abiura del proprio generale.
La Bielorussia è una dittatura del kitsch. E’ come l’acconciatura col riporto del suo presidente: un buffo tentativo di mostrare ciò che non si è, o che non si ha. Dalle giacche acetate con trame di leopardo, ai finti fiori ornamentali pubblicizzati nei 6x3 e onnipresenti nei ristoranti.
E’ come se negli ultimi 20 anni l’estetica del paese fosse stata nelle mani di un solo uomo, anziano, provinciale, con l’attitudine da capo di una grande fattoria.
Sergey Pukst dice che l’unione sovietica è crollata perché non aveva dei buoni designer; per la Bielorussia sembra vero il contrario. Quil’ingegneria artistica (così chiamano il design) sembra in pieno revival.
Ma il kitsch di regime, versione provinciale del gusto URSS, fa brillare ancor di più le perle della cultura indipendente.
Uno dei posti dove nasce l’arcobaleno bielorusso è la Galleria Y, motore immobile e cuore pulsante della vita culturale di Minsk. E' la base operativa di artisti come Artur Klinov e Sergey Shabokin. Nel bookstore c’è la casa editrice Logvinov, frequentata dai migliori scrittori in lingua bielorussa del paese. Nelle sale tra gli uffici e il bar si possono incontrare ogni giorno registi, critici, filosofi, musicisti e ogni sfumatura di grigio dall'intellettuale indipendente al giovane hipster. La Galleria Y è come quei caffè letterari tra ottocento e novecento in cui l'intelligencija si trovava per bere assenzio e organizzare rivoluzioni.
L'unica rivista d'arte indipendente si chiama non a caso pARTisan, perché quella del partigiano è una figura topica in cui si riconoscono molti creativi del paese. Come guerriglieri culturali agiscono in penombra, oscurati dai media ufficiali, e sono pronti ad operare senza mezzi e senza gratificazioni. Sono davvero in pochi in Bielorussia ad intendere l’arte come avanguardia sociale, e la battaglia culturale come avamposto di quella politica.
L'arte contemporanea è provocatoria per definizione, ma in Bielorussia da fastidio anche quando non lo è.
Michail Gulin è stato fermato dalla polizia e ha perso il suo lavoro per aver fatto un’installazione temporanea con 6 cubi colorati in diversi luoghi pubblici. Nessun messaggio nascosto, nessuno spunto polemico, semplici cubi colorati.
In Bielorussia nel 2013 la geometria pare essere un reato.
Alaksandr Zimenko che conosce dall'interno le dinamiche del ministero della culturaci spiega che il governo teme l'arte contemporanea perché non la comprende, e per paura di non riuscire a cogliere di volta in volta eventuali metafore contro il potere, preferisce buttar via il bambino con l'acqua sporca.
La critica al presidente qui non è considerata libertà di espressione ma dileggio alla patria, ed è punita severamente.Chi vuole restare nel paese l’ha capito e cerca di farsene una ragione. A parte questo i problemi maggiori per gli artisti indipendenti sono di natura economica; il pubblico pagante è ristretto, i finanziatori privati sono pochissimi perché l’80% dell'economia è nelle mani dello stato, che valuta accuratamente di chi essere mecenate.
Per gli artisti indipendenti non è vietato organizzare concerti ed eventi, ma non è nemmeno permesso. In Bielorussia l'antico adagio liberale è rovesciato; qui tutto ciò che non è espressamente consentito dalla legge è proibito.
Se non si entra nel cerchio magico del ministero, con pubblici e ripetuti endorsement al regime, gli ostacoli di natura economica e burocratica rendono impossibile che lo show diventi business.
Per il teatro la situazione è anche peggiore. Voler decidere cosa mettere in scena significa non solo rinunciare al supporto statale, ma anche a quello privato. E qui stiamo parlando di teatro indipendente, perlopiù teatro plastico e danza. Il teatro d’opposizione poi è un’altra storia.
I registi del Free Theatre, in esilio a Londra, sono costretti a dirigere i loro attori tramite webcam. Le loro performance, in una vecchia casa all’estrema periferia di Minsk, sono costantemente monitorate dalla polizia, che controlla e scheda anche l'identità degli spettatori.
Chi non teme affatto le autorità è invece il direttore del Teatro Statale di Grodno, ex colonnello del KGB, che alla nostra domanda sulla singolarità della suo curriculum ci risponde che il teatro è solo un’altra forma del suo servizio alla nazione.
Ecco dunque un'esempio di sperimentazione culturale, anche se in senso ostinatamente reazionario.
Per lo scrittore Pavel Kostiukevich la caotica condizione ideologica del paese con la de-russificazione, il post-colonialismo e l’apertura al capitalismo globale è esaltante per artisti ed autori d'ogni genere, specialmente per poeti e romanzieri, che grazie a tutto questo materiale umano oggi sono tra i più interessanti d’Europa.
Ma attenzione a non cadere nel tranello della visione poetica dell'autoritarismo. Il pluripremiato regista teatrale Vladimir Shcherban mette in chiaro che la produzione culturale nel paese è indubbiamente penalizzata dall'attuale condizione politica.
Gli artisti non sono eterei eroi romantici ma persone reali con famiglie e figli, e
non ricevono certo iniezioni di creatività o incoraggiamenti dall'affrontare difficoltà economiche e sociali.
Il McDonalds di via Lenin
Nonostante il paese sia 154° su 177 nel ranking della libertà economica,se avvii un progetto innovativo probabilmente (e paradossalmente) avrai successo perché l'unico sulla piazza e perché il paese cresce a ritmi che l'Euro-zona si sogna. I giovani bielorussi sono infatti più sereni dei loro colleghi italiani sapendo che il tasso di occupazione nel proprio paese è al 99,4%, e tutto questo nonostante le sanzioni economiche imposte dal blocco UE-USA.
Il settore dell'information technology è poi particolarmente sviluppato. Il basso costo degli ingegneri ha portato clienti internazionali come Coke, Google, Citigroup, Sears, Colgate-Palmolive, Thomson Reuters, Siemens, Mercedes-Benz, Bosch, Philips, Samsung, Barclays, ad affidarsi a sviluppatori bielorussi. Applicazioni come Viber e giochi come World of Thanks sono fiori all'occhiello del Made in BY.
Attualmente l’ostacolo più grande è la paura degli stakeholders. Rompere lo status quo con idee e progetti eterodossi può essere pericoloso, e per gli investitori prevale sempre il dubbio e il sospetto.
George Zaborski ci racconta la sua esperienza personale con Me100, il più interessante spazio per co-working a Minsk. Lo studio occupa trecento metri quadri in un edificio di archeologia industriale non recuperata.
Il proprietario dell’edificio è una banca d’affari che, per nulla entusiasta della grossa quota d’affitto e della riqualificazione dell’intero complesso, si lamenta per le attività nello studio. Qualche giorno fa,Georgeha ricevuto una chiamata dal direttore che, invece di complimentarsi per aver fatto rinascere l'immobile, era furibondo per quelle donne nude e quelle videocamere (era il vernissage di una mostra fotografica).
L'economia in Bielorussia cresce a proprio agio tra le contraddizioni. Chi sa cosa penserebbe Lenin dell'enorme McDonald aperto sulla strada a lui intitolata. E chi sa se c'è una terza via tra l'odierno monopolio statale e la paventata svendita del patrimonio industriale nazionale agli oligarchi russi.
Le libertà concesse dal regime negli ultimi due anni sono oggettivamente aumentate. Ora non ci sono (quasi) più prigionieri politici, i musicisti che erano nella lista nera possono di nuovo suonare, e gli squadroni della morte non spezzano nemmeno più le gambe ai documentaristi; persino parlare bielorusso (e non russo) sta diventando col tempo un comportamento accettabile. Come ci spiega Yury Khashchevatskiy il regime non perseguita più perché non ne ha più bisogno; Lukashenko ha fondato il suo potere su una macchina statale che, nel bene e nel male, bisogna riconoscere che funziona.
Le concessioni di queste nuove libertà portano i ragazzi a dire che la vera battaglia da fare non è più quella politica ma quella interiore, che la censura da combattere è quella autoimposta, e che deve finire il tempo delle lamentele.
Ma più che l’ottimismo per il nuovo corso del regime è la profonda disillusione che viene fuori.
La stanchezza con cui i bielorussi vanno avanti nonostante le difficoltà non è dovuta al ventennio di Lukashenko ma ai 500 anni di una delle storie più sofferte d’Europa e d’Asia. Perché nella Bielorussia sono racchiuse le ricchezze e le sofferenze di due interi continenti.
Artur Klinau dice che Dostoevskij deve aver frequentato bielorussi a San Pietroburgo, perché nessuno meglio di lui ne ha descritto il carattere, la riservatezza, il cinismo, e il disincanto, quello necessario a sopravvivere in un regime ostinatamente anacronistico, e che fa dei bielorussi di oggi l’avanguardia del nuovo millennio senza ideologie.
Passeggiando per le vie di Minsk, Klinau mi fa notare come la monumentale e solenne capitale costruita sull’utopia comunista della città del sole, oggi si rivela lo scenario piatto di un dramma pastorale in stile teatro dell’assurdo; non un dramma per bielorussi, russi, polacchi o tedeschi, ma un’opera teatrale universale sui sogni degli uomini e sulla non possibilità di realizzarli.
Tornando alla metafora di Pasolini, il nostro unico rimpianto sarebbe se con la dittatura scomparissero anche le lucciole, cioè l'antropologia, i costumi e la gentilezza atavica che dal paese contadino si è tramandata ai ragazzi di oggi attraverso i secoli. Ma abbiamo capito che la Bielorussia è un paese al di là del bene e del male, e al di là dei giudizi di valore. E con Klinau ci chiediamo se fosse stato meglio avere un’altra città mitteleuropea o questo bizzarro conglomerato, simbolo più che dell’utopia svanita, del coraggio donchisciottesco di credervi fino in fondo.
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P.S.
Al termine Bielorussia, derivante da Russia Bianca, si preferisce usare Belarus, che implica con maggiore forza l'idea di un popolo e di una nazione distinti ed autonomi rispetto all'influenza russa