ULTRAS MAROCCHINI: LA GENTE CI CONSIDERA ANIMALI
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Christian CasagrandeNegli ultimi mesi gli stadi di Casablanca sono stati scossi da lotte sanguinose tra gli ultras che sostengono club rivali. In seguito a fallimenti sul campo non è raro che la violenza coinvolga anche gli stessi giocatori. Breve viaggio in un mondo, in cui il calcio continua ad essere una faccenda tremendamente seria.
Said, Hicham e Ismail non si conoscono, ma non è del tutto da escludere che si siano già presi a bastonate a vicenda in passato: sono degli ultras. “Per il nostro club siamo pronti a morire”, afferma Said con espressione immobile, avvolto da una nuvola di fumo di hashish. Non sorride molto e un'affermazione del genere, raccolta solo dopo che abbiamo rotto il ghiaccio, detta da uno come lui suona quantomeno minacciosamente credibile. Said è membro di Black Army, gruppo ultras che supporta la squadra FAR Rabat. Hicham, invece, fa parte dei sostenitori del team plurivincitore Wydad Casablanca, Ismail, al contrario, è iscritto al gruppo ultras dell’altra squadra della città, il Raja Casablanca. Si tratta delle squadre più note in Marocco, tra i quali intercorrono rivalità particolarmente esasperate.
Gli arabeschi sui rivestimenti murari si percepiscono solo indistintamente e la luce non é sufficiente per raggiungere il punto più interno del bar dove ci troviamo. Siamo a Rabat, la capitale del Paese. “La gente ci considera degli animali”, dice Said prima di fare un altro tiro. È seduto al tavolo con altri quattro membri della Black Army, sui venticinque anni, tutti in tuta sportiva con braccialetti d'argento ai polsi e scettici nei confronti dei giornalisti. Troppo spesso la stampa ha dato un'informazione scorretta sui loro riguardi contribuendo a creare un'immagine molto negativa agli occhi della società.
In 150, armati di coltelli e di bastoni
Negli ultimi anni gli ultras marocchini hanno spesso suscitato scalpore per le azioni di violenza che li contraddistinguono. Triste è la fama del “giovedì nero”. Durante le ore precedenti l’incontro tra il Raja Casablanca e il FAR Rabat nell’aprile del 2013, centinaia di ultras e di altri vandali devastarono l’intera città. Circa un anno prima, il ventunenne Hamza Bakkali, uno dei sostenitori del Wydad, aveva perso la vita durante degli eccessi di violenza. E solo lo scorso marzo 150 ultras, armati di coltelli e di bastoni, hanno assalito il terreno di gioco dove si stava allenando la loro squadra del cuore, minacciando giocatori ed allenatori in risposta a presunte accuse di corruzione che erano state mosse alla squadra e a una serie di insuccessi sul campo. Poi si sono persino infiltrati negli spogliatoi per saccheggiare tutto quanto potesse essere di valore.
Hicham, che aveva partecipato all’incursione, adesso sghignazza scherzosamente mentre racconta le vicende di quel giorno. Incontro il diciannovenne sul tetto di una palazzina di Casablanca, disseminato di corde per il bucato, da cui si vedono anche tantissime parabole. Sul muro di un palazzo lontano si scorge una scritta a favore della squadra del Wydad, con molte lettere ormai cancellate dal tempo. Per Hicham il gesto è del tutto giustificato: “dopo quel giorno finalmente hanno vinto!”. In fin dei conti in gioco c’era il bene della squadra.
Ismail probabilmente sarà d’accordo con lui. Inclina il capo e stringe gli occhi, si tira indietro mentre butta fuori il fumo e afferma che il sostegno alla squadra è più importante di tutto il resto. Ha già 38 anni, è alto e magro. Altri nove ultras sono seduti accanto a lui all’interno di un bar miseramente arredato con un pavimento in piastrelle bianche. Tutti mostrano orgogliosi dei video su Youtube con coreografie da stadio, cori e stendardi. Questa é la cosa più importante, la violenza non è mai fine a sé stessa. Per loro "il giovedì nero" non é altro che una grossa sciocchezza compiuta da una piccola minoranza. Non vogliono passare per degli hooligans. Esigono solo rispetto da parte degli altri ultras e minacciano che, nel caso in cui tale condizione non dovesse essere rispettata, il ricorso alla violenza risulterebbe semplicemente inevitabile.
I BONBONS SAUVAGES: RABBIA AL POSTO DEL DOLORE
La violenza non fa parte dell’ideologia di tutti gli ultras, ma per molti é così, che sia fine a sé stessa o necessaria. Alcuni portano delle cicatrici sul volto e non riescono nemmeno a ricordarsi quante ferite hanno sul corpo, per non parlare del numero di risse a cui hanno partecipato. Karim, un importante membro della Black Army, nel 2005 è scampato per un pelo alla morte dopo un incontro quando, durante un pestaggio, gli sono state conficcate numerose lame nella schiena.
“Bonbons sauvages”, così Hicham ha soprannominato le pastiglie che ogni tanto prende prima di recarsi allo stadio. Si tratta di benzodiazepine, che al dolore sostituisce una sensazione di rabbia selvaggia. Anche Hicham conferma che il club è la cosa più importante per lui. E si compiace quando afferma:“sul campo di battaglia non abbiamo pietà”; o quando narra la vicenda di un ultrà del Raja che avrebbe squarciato il mento a uno del Wydad, per poi scapparsene in Senegal perché da quel momento aveva temuto per la sua pelle, o quando ci assicura l’assoluta mancanza di scrupoli con la quale sarebbe in grado di uccidere un altro ultrà. Non si può certo dire che l’indole aggressiva che il giovane dichiara si adatti al suo aspetto. Nonostante ciò, la leggerezza con la quale il ragazzo racconta tutto ciò, per liquidare poco dopo le sue affermazioni con una risatina e una scrollata di spalle, suscita un certo disagio.
Abuso di potere e crudeltà
Nonostante il loro ambiente sia pervaso da una violenza strisciante, gli ultras si sentono ingiustamente etichettati come un pericolo per la sicurezza dei cittadini, in particolare da quando, nel gennaio del 2011, è stata promulgata una legge contro la violenza negli stadi. Di fatto viene limita la loro libertà di incontro e per poter svolgere le loro attività i gruppi hanno ora bisogno di permessi speciali. Al contrario, per le autorità è divenuto più semplice registrare i dati personali di chi fa parte di tali associazioni. Ma soprattuté agevole arrestare gli ultras. Hicham, Sail e Ismali denunciano la polizia per gli stessi fatti: abuso di poteri, crudeltà. Secondo loro gli ultras verrebbero presi a manganellate disordinatamente e tenuti per settimane intere in stato di fermo.
Nonostante agli ultras non dispiaccia essere etichettati come dei ribelli, è praticamente impossibile attribuire a tali gruppi una dimensione politica. Se chiedo loro che cosa pensino delle proteste politiche della primavera del 2011, si palesa chiaramente una certa indifferenza. “Ciò che fa il governo non mi riguarda”, dice Hicham. Sebbene si lamentino per essere discriminati come ultras, una gran parte di loro è soddisfatta della situazione politica marocchina. Quello degli ultras non è un fenomeno che viene dal basso e i membri provengono da quasi ogni strato della società. Said è senza lavoro, Hicham segue un corso a distanza per prepararsi agli esami di maturità, mentre Ismail è un location scout per una casa di produzione cinematografica. Molti altri studiano all’università o hanno un lavoro stabile.
Tuttavia, per quanto siano diversi l’uno dall’altro e per quanto odio possano covare dentro, sono tutti fieri della loro vita da ultrà. Tra stadi e risse si sono creati il loro piccolo rifugio, all’interno del quale hanno modo di esprimersi e di identificarsi al di là di ogni convenzione sociale. Forse non tutti morirebbero per la propria squadra, ma ciascuno di loro sarebbe pronti a farlo in nome di questo piccolo rifugio personale. “Siamo ultras a tempo pieno”, afferma Said. E per la prima volta durante la serata un sorriso scivola tra le ombre cupe nel suo volto.
*Tutti i nomi sono stati modificati per questioni di privacy.
-Questo reportage fa parte della serie di articoli del progetto Euromed-Casablanca, finanziato dalla Fondazione Lindh e realizzato grazie al partenariato con Search For Common Ground.
Translated from Ultras in Marokko: „Sie halten uns für Tiere“