Triton e le vite di scarto dei migranti
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L'inizio dell'operazione Triton non è un evento isolato nel panorama politico italiano ed internazionale: piuttosto esso si lega, in un complesso sistema di interconnessioni, alle attuali norme sull'accoglienza dei migranti in Europa ed allo stato delle periferie italiane.
A causa delle numerose tribolazioni che affliggono la politica italiana ed in particolare il Ministero degli Interni, la prima impegnata in una corsa contro il tempo per concludere alcune manovre-chiave del prossimo futuro soprannominate SbloccaItalia e Jobs Act, il secondo nel cercare di gestire, con risultati insoddisfacenti, le proteste di piazza (oltre agli scontri di Roma nella scorse settimane si è assistito ad episodi di protesta anche a Napoli, dove in queste ore è stata bloccata l'autostrada A56, nota come tangenziale, ed a Bologna) e le dure reazioni alla sentenza del caso Cucchi, nella quale la corte d’appello di Roma ha assolto tutti gli imputati del processo, sembra che sia passato inosservato l’annuncio della conclusione dell’operazione Mare nostrum e l’inizio di una nuova operazione, denominata Triton.
Trenta miglia marine
Si tratta di una missione Frontex e, in quanto tale, è considerata un programma a guida dell’Unione Europea; per questo motivo essa coinvolgerà tutti gli stati membri sia nella fornitura di mezzi navali, come nel caso di Irlanda e Finlandia i cui mezzi (un aereo ed una nave) hanno affiancato quelli già messi a disposizione dall’Italia, sia per quanto riguarda le spese economiche – non a caso il ministro Alfano ha sottolineato che Triton «[…] costa un terzo e non è a carico solo dell’Italia, con enorme risparmio per noi», un risparmio che si aggirerebbe intorno ai sei milioni di euro. Partendo dalle basi di Porto Empedocle e Lampedusa, i mezzi militari (due navi d’altura, due navi di pattuglia costiera, due motovedette, due aerei e un elicottero, la maggioranza dei quali è di proprietà italiana) avranno il compito di pattugliare il canale di Sicilia e le coste calabre fino a trenta miglia marine dal litorale italiano. Nonostante le rassicurazioni del ministro, che ha sottolineato come i mezzi faranno «ricerca e soccorso nei limiti del diritto internazionale della navigazione che impone il dovere di soccorrere chi è in difficoltà in mare» e che, in teoria, «Mare nostrum andrà avanti finché l’Europa non sarà in condizioni di intervenire più e meglio di come abbiamo fatto […]», si ha la sensazione che si voglia affidare ad un cavillo legislativo la soluzione al problema delle migrazioni di massa che interessano l’area meridionale del Mediterraneo.
Un rapporto malato tra il nord e il sud del mondo
Il problema principale è l’assenza di «alternative sicure per cercare protezione internazionale in Europa, la via del mare è l’unica opzione per migliaia di persone, vittime di violenza e torture, persone disabili, donne e bambini», come denunciavano Amnesty International, ASGI (Associazione Studi Giuridici sull’Immigrazione) e Medici Senza Frontiere in una lettera aperta pubblicata il 31 ottobre dal quotidiano La Repubblica in cui, contemporaneamente, riconoscono come «operazioni come Mare nostrum non possano essere soluzioni permanenti per i migranti e i rifugiati […] in cerca di assistenza e protezione […]» e che «alla continuazione del soccorso in acque internazionali va infatti affiancata l’istituzione di canali di ingresso legali e sicuri che consentano alle persone in fuga dalle aree di conflitto di poter giungere in Europa […], evitando pericolosi viaggi in mare a rischio della vita». Una politica di forte restringimento, ma sarebbe opportuno definirla di chiusura nei confronti dei profughi, non riuscirà a risolvere un problema che Mussie Zerai, prete cattolico di origini eritree impegnati da anni nell'aiuto e nel soccorso dei migranti che arrivano in Italia e fondatore dell'Agenzia Habeshia per la Cooperazione allo Sviluppo, ha descritto efficacemente commentando il naufragio di Lampedusa del 3 ottobre 2013 (avvenuto a circa un chilometro dalle coste nazionali italiane): padre Zerai ha definito le vittime di quella tragica notte «il frutto di un rapporto malato tra il nord e il sud del mondo». Un rapporto malato che il filosofo slovacco Slavoj Žižek attribuisce, nell’opera Violence: Six Sideways Reflections (Picador, 2008; edito in Italia con il titolo La violenza invisibile, Rizzoli, Milano, 2008), alla violenza sistemica del capitalismo, un genere di violenza descritta come puramente «oggettiva» ed anonima: le migliaia di morti sembrano essere il risultato di un processo che nessuno ha pianificato né eseguito.
Un destino di anonimato ed indifferenza che non riguarda solo i morti: come già denunciato dal documentario The Dark Side of Italian Tomato, da un recente servizio simile realizzato dal giornalista Diego Bianchi (in arte Zoro) per il programma televisivo Gazebo e confermato, in ambito giuridico, da una sentenza della Corte di Strasburgo del 4 novembre che ha diffidato la Svizzera dal costringere una famiglia afghana, sbarcata inizialmente sulle coste calabre e trasferitasi prima in Austria e poi in Svizzera, a ritornare in Italia finché il governo non offra precise informazioni su vita ed alloggio. In tutti questi casi emerge quello che i giudici hanno descritto come «il pericolo [che i richiedenti asilo rinviati in Italia da altri paesi europei, NdR] di restare senza un luogo dove abitare» o che siano costretti ad abitare in luoghi «dove si verificano episodi di violenza»: episodi già verificatisi nel corso degli anni e che in questi giorni si sono ripetuti presso Tor Sapienza, nella periferia orientale di Roma. Ma soprattutto emerge una drammatica assenza che condanna i migranti (e non solo) a vivere delle «vite di scarto».