Tobin Tax, il mostro di Loch Ness
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Un po' di chiarezza su uno degli strumenti di politica finanziaria più discussi negli ultimi anni.
L'uso comune dell'espressione "crisi finanziaria" è relativamente recente, complice il manifestarsi di numerose crisi identificabili nella componente finanziaria durante gli anni Novanta. Tuttavia, il più delle volte, queste crisi hanno presentato una virulenza o un raggio d'azione tali da comportare un intervento istituzionale su scala locale e un grado di notorietà ridotto. La crisi finanziaria del 2006, invece, possiede due nuove caratteristiche: sistematicità e, soprattutto, globalità. Le sue gravi ripercussioni economiche hanno, da un lato, inevitabilmente portato all'attenzione del comune cittadino la rilevanza (e la pericolosità) della finanza nell'odierno sistema economico e, dall'altro, costretto le istituzioni a riformularne teoricamente i meccanismi.
La "Nessie" della finanza
In un mondo ultra liberista, la necessità di regolare la finanza speculativa è diventata un punto fondamentale delle agende istituzionali. Tra le proposte avanzate negli ultimi anni, la costruzione di un'imposta sulle transazioni finanziarie ha provocato numerosi dibattiti politici e mediatici. L'idea, in realtà, non è nuova ma il numero di volte che è stata abbandonata e ripresa ha fatto sì che qualcuno la paragonasse al mostro di Loch Ness, che prima si vede, poi scompare, poi riappare. A inventare la Tobin Tax, come spesso viene definita erroneamente l'imposta sulle transazioni finanziarie, è stato, nel 1972, l'economista e premio Nobel James Tobin.
L'imposta prevista da Tobin va innanzitutto inquadrata nel contesto storico degli anni Settanta: nel 1971 Nixon annuncia la sospensione della convertibilità del dollaro in oro, dando vita ad un regime internazionale di cambi flessibili. L'intento dell'economista statunitense è dunque quello di penalizzare le speculazioni a breve termine sui mercati valutari, ottenendo contemporaneamente risorse da destinare alla comunità internazionale. La questione cruciale riguardava comunque la determinazione di un'aliquota abbastanza alta (Tobin considerava un intervallo tra 0,05% e 0,1%) da limitare quel tipo particolare di transazioni, e non tanto da ricavare introiti come invece si vuole fare oggi. Infatti, l'imposta sulle transazioni finanziarie configurata recentemente, sebbene conservi in teoria l'obiettivo di limitare le speculazioni a breve (ma sarebbe meglio dire a brevissimo) termine, prevede un'aliquota molto più bassa che, anche se tocca un numero molto più ampio di strumenti finanziari poco regolati come i derivati, non sembra essere in grado di mettere in discussione il volume delle transazioni speculative.
All'atto pratico
La principale obiezione mossa all'istituzione di una simile imposta guarda però all'estensione territoriale della sua applicazione: a cosa andrebbe incontro un Paese nell'adottarla unilateralmente? La storia e i dati economici ci danno una risposta. La Svezia fu, nel 1984, il primo paese ad adottare un'imposta sulle transazioni finanziarie con un'aliquota dello 0,05% applicata a tutti gli acquisti di titoli azionari che, due anni più tardi, arrivò a comprendere anche quelli obbligazionari. Ecco i risultati: in Svezia, le transazioni finanziarie calarono così tanto da costringere il governo a ritirare l'imposta nel 1992. Va poi considerato che, in quell'intervallo di tempo, il costo del debito pubblico svedese aumentò, dato che gli investitori chiedevano dei rendimenti sempre più alti per mantenere dei titoli così tassati.
Un altro esempio è l'Italia, che ha deciso di introdurre un'imposta sulle transazioni finanziarie nel 2013. I dati parlano chiaro: l'anno scorso Piazza Affari ha registrato un crollo considerevole del volume delle transazioni. Secondo alcuni analisti, a un mese dal debutto dell'imposta (marzo 2013), il calo sarebbe stato del 30%. Questa fuga di capitali è stata tra l'altro seguita dalla delusione circa i ricavi ottenuti dato che il governo, a fine anno, ha dichiarato di aver incassato un gettito fiscale di appena 285 milioni di euro, molto meno delle stime iniziali che puntavano al miliardo.
Sul tavolo dell'Unione Europea c'è da tempo il progetto di istituire a livello comunitario quest'imposta che, secondo una risoluzione del Parlamento Europeo del 2011, porterebbe nelle casse dell'UE circa 200 miliardi di euro all'anno. Tuttavia i tempi si sono allungati a causa dell'opposizione di paesi membri, come la Gran Bretagna, che posseggono una piazza finanziaria molto ampia. Ad oggi, le trattative sono slittate al 2016.