The Wounded Angel : i racconti spietati della caduta di un angelo
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Il giovanissimo Emir Baigazin, regista kazako che avevo esordito nel 2013 con il pluripremiato Harmony Lessons, continua la sua trilogia sul peccato con il nuovo spietato, sorprendente The Wounded Angel. Un film sull'adolescenza e sulla perdita dell'innocenza. Lieti di annunciare che la caduta di un angelo ferito corriponda all'ascesi di un regista illuminato.
Figlio prescelto della Berlinale, a cui aveva offerto l’opera prima Harmony Lessons (2013), Emir Baigazin - trentenne kazako salutato come uno dei nuovi autori del cinema internazionale - ha fatto il suo ottimo ritorno al festival tedesco con il secondo film, The Wounded Angel (L’Angelo ferito). Con questa pellicola, in tutto e per tutto simile alle atmosfere della precedente, il regista ha annunciato di essere arrivato al secondo tassello di una trilogia sul peccato e sul dubbio morale nell’adolescenza. Anch’esso trasportato da un’estetica classica e solennemente architettata e uno sguardo impietoso e più religioso che psicologico, The Wounded Angel radicalizza la formula “teorema da dimostrare” – uno dei vari motivi per accostarlo a Von Trier – adottando una struttura a capitoli dai titoli biblici (la caduta, l’avarizia…).
Tra le aride steppe centrasiatiche interrotte solamente da qualche baracca e da industrie dismesse, nel Kazakistan della metà degli anni 90 (una didascalia ci informa che la crisi post-sovietica imponeva al governo di tagliare la corrente elettrica a una certa ora in tutte le case), Baigazin presenta quattro episodi distinti che funzionano come altrettanti racconti morali uniti dall’ineluttabile scelta del male da parte dei rispettivi giovani protagonisti (circa 12-14 anni). Zharas è costretto a lavorare per mantenere la famiglia e decide di rubare per salvare l’onore del padre appena uscito di prigione; Balapan è un talentuoso cantante ma abbandona la sua voce e il concorso canoro cedendo alle tendenze violente di un gruppo di bulli del villaggio; Zhaba rivende pezzi di rame che trova tra le rovine delle fabbriche e si ritrova a truffare tre piccoli reietti incontrati nelle fogne; Aslan è un promettente studente ma rinuncia all’esame di ammissione al liceo di medicina per prendersi cura di un albero che sente crescere dentro di lui dopo aver fatto abortire la sua ragazza.
Siamo di fronte a uno di quei film che rientrano nella cosiddetta categoria “festivaliera”, volta a indicare una nicchia di cinefili che amano premiare gli sforzi più estremi e insoliti di una settima arte la cui parte “autentica” - dopo quasi 60 anni dalla Nouvelle Vague – si identifica ancora nel credo e nel culto dell’Autore e della sua indipendenza radicale (pur in un contesto, “festivaliero” appunto, che serve a legittimare le sue scelte). Dicendo ciò, bisogna mettere in conto una sceneggiatura impiantata su lunghe sequenze, pesanti silenzi interrotti da rarissimi dialoghi utili a sottolineare la sottile presenza di una diegesi o qualche passaggio più sentenzioso, reazioni non del tutto ordinarie dei personaggi spesso implicanti una violenza materiale e/o simbolica e una parabola discendente del protagonista. La regia di Baigazin è chirurgica, composta. Si potrebbe dire fredda, padrona di un soggetto catturato in una serie di situazioni/inquadrature che lo seguono nel suo esempio sacrificale di fronte a un voyeurismo estetico e intellettuale. I quattro esempi del “peccato” messi in scena, non cedono però all’aneddotico o al didascalico, ma, attraverso la prova morale, emettono un’intensa luce propria, che si perde quanto la corrente elettrica delle case dei personaggi. L’insegnamento morale? Lasciarci in un’ambigua penombra, da cui guardare l’oscurità.
Nello specifico, voglio evocare qui soltanto due elementi che integrano la lettura del film, traendo spunto dalla pittura e dalla musica. Il primo è il quadro omonimo “L’angelo ferito” (1903) di Hugo Simberg, che ha influenzato la genesi del lungometraggio di Baigazin. Nel dipinto, due bambini trasportano in lettiga un angelo : quello che precede, vestito di nero, guarda rassegnatamente diritto verso la strada nel suo incedere responsabile, quello che segue col suo sguardo severo verso l’hors-cadre interpella direttamente lo spettatore, l’angelo (una bambina bionda) è prostrato verso il basso, ferito non solo alle ali ma anche agli occhi. La bendatura dell’angelo, che si presume sia ferito a causa della caduta sulla Terra, indica un’incapacità di vedere, discernere e quindi di guidare gli umani obbligati dunque a portarne il peso nella desolazione e nell’abbandono. La metafora della caduta luciferina, legata alle stesse atmosfere di incertezza e mistero del quadro, accompagna la perdita di innocenza e di purezza dell’infanzia dei giovani protagonisti del film, che, da eroi erranti di un’ inospitale terra post-sovietica, vivono l’assenza di valori, moralità, appigli materiali ed esempi etici (famiglia, amici, Stato). In maniera identica a Harmony Lessons, la vendetta, il delirio, la violenza, la criminalità abbracciano il racconto di formazione postmoderno come il rovescio della medaglia di una civiltà che ha fallito nella sua costruzione.
L’elemento musicale invece è costituito dall’ Ave Maria di Schubert, interpretato in versione italiana dal (bel)canto di Balapan, l’adolescente del secondo episodio. Interpretazione a mio parere indimenticabile: proprio per l’imperfezione dell’armonia, della metrica, della pronuncia, il timbro vocalico del ragazzino esprime un’esitazione tipica della fase di passaggio dell’adolescenza in cui la voce lotta tra la limpida estensione infantile e la rauca potenza adulta, un canto delicato e al tempo stesso solenne e commovente che traduce perfettamente l’atmosfera globale dell’opera. L’Ave Maria è inserita in The Wounded Angel proprio a introduzione del secondo capitolo – con un primo piano in contre-plongée del ragazzino illuminato da una luce rossastra quasi a rivelare una natura altra che incrina il valore sacro della composizione – e a chiusura del film, nell’epilogo collettivo (“il Peccato”) in cui tutti i personaggi sono riuniti di fronte il palcoscenico in cui Poussin si esibisce nuovamente. Il tentativo di catarsi è evidente dal testo di Schubert : “Sperduta l’alma mia ricorre a Te e pien di speme si prostra ai Tuoi piè, ti invoca e attende che Tu le dia la pace che solo Tu puoi donar”. La caduta e la ferita rientrano allora in questa fase di passaggio, di ricerca – con il suo progressivo scivolare in qualcosa di inatteso- che non termina certamente con l’adolescenza, ma che in questa si incarna con tinte più vivide e toni più radicali. Un canto tragico, che ferisce sorprendentemente anche lo spettatore.