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The Museum of Everything, outsider dell'arte in Europa

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Culturasocietà

The Museum of Everything”, questo il nome del museo che dal 2009 viaggia lungo l’Europa, e non solo, regalando l’opportunità di scoprire una creatività decisamente non convenzionale. Artisti rimasti bambini, come sostiene il direttore, James Brett, che ha accumulato le opere di illustri sconosciuti, autodidatti, spesso affetti da disabilità fisiche o mentali.

Nessuna etichetta”, ribadisce Brett, che si batte contro il fascismo del mercato dell’arte e l'ossessione di applicare etichette.

Sabato pomeriggio, domenica mattina. Quando desidera. Tutto è possibile”. È la risposta che ricevo alla richiesta di un’intervista con la mente che si cela dietro il Museum of Everything, strabiliante esposizione, quasi universale, come farebbe pensare il nome, che è sbarcata il 15 ottobre nei locali della Chalet Society, un antico seminario di Parigi, rimesso a nuovo di recente. Democratico bazar di oggetti d'arte, collezione stravagante di artisti ignari ed esistenze tormentate, il museo si srotola dietro un'allegra porta dall'insegna bianca e rossa che lampeggia in mezzo al viale.

The Museum of Everything resterà a Parigi sino al 16 dicembre.James Brett, patron e grande burattinaio dell’unico museo nomade in tutta Europa, mi riceve seduto nell’accogliente caffè del museo, un sabato pomeriggio piovoso come tanti a Parigi. Mi guarda dietro le sue lenti azzurre, non stacca gli occhi dal computer, se non per dirmi che mi dedicherà poco tempo, “perché la chiave di questo museo devi trovarla da sola”. Resisto tenacemente alla retorica e gli chiedo di raccontarmi la sua storia. "Un segno del destino”, dice James. Tutto nasce da un certo William Brett, illustre sconosciuto anch’egli, un ottantenne residente nell’Isola di Wight, che ha raccolto tutti gli oggetti più importanti accumulati nel corso della sua esistenza. “Avendo lo stesso cognome”, e lo stesso lampo di genio, “mi sono sentito in dovere di aprire una sorta di filiale londinese”. Il punto di partenza del caleidoscopico caravanserraglio del Museum of Everyhting è stata Londra, nel 2009. Un’apertura che ha attirato più di 35.000 visitatori in uno spazio di circa 1000 metri quadri. Il resto è una storia che ha attraversato l'Italia, la Francia, la Russia e si prepara a sbarcare a Stoccolma e poi in Australia. 

Alla luce calda del caffè, qualcuno disegna addentando un muffin o sorseggiando un cappuccino. James, dietro il suo Mac, sorveglia. E mi spiega: “Quando esci da questo museo, non sei più la stessa”, mi promette. Così, abbandono James, e la sua scarsa loquacità, e risalgo le scale del museo fino al secondo piano, punto di partenza dell’esposizione, che inizia con le stampe di Henry Darger, una sorta di tormentato Lewis Carroll, i cui pannelli raffigurano decine e decine di piccole bambine transessuali, le sue Vivian Girls.

Incontro Lazare, 49 anni, ipnotizzato da inquietanti uomini di latta. “Siamo abituati a lasciarci affascinare dalla figura degli artisti”, dice, “ma il più delle volte hanno avuto vite spaventose e hanno sofferto molto”. Basta dare un’occhiata all’alcova ricostruita in una saletta dell'ultimo piano, il rifugio dell’anima in pena di Sister Gertrude Morgan. La sua casa, spazzata via dall’uragano Kathrina, oggi viaggia in giro per l’Europa insieme al museo, con il suo piccolo organo ricoperto di scritte e i quadri che si proponevano di diffondere l’eterna “Gospel mission”. “Sembrano temi non tanto interessanti… come la visione del paradiso di una suora”, aggiunge Lazare, “ma in questa cornice, la povertà dei materiali, i soggetti spinosi, le vite difficili, ho l’impressione che sia tutto bello”.

Le pareti e l'organo sono ricoperti di scritte visionarie e preghiere.

Lascio Lazare e ascolto la guida davanti agli spaventapasseri ferrosi di Hawkins Bolden. “Pare che il colpo di una palla da baseball l’abbia privato della vista e lui si sia vendicato forando i suoi uomini di latta, o forse omaggiandoli con quello che lui aveva perso per sempre”. Accanto a Bolden, i disegni silenziosi di James Castle, incapace di leggere, scrivere, ascoltare. "Art brut", questa l’unica etichetta che si è concessa questo museo che si vuole democratico, fervente oppositore di ogni fascismo artistico e segregazione culturale. E gli stessi artisti non si fregiano del titolo di “outsider”, come potrebbero?, ma dalle loro biografie si leggono spesso mestieri semplici quando non singolari. Come Felipe Jesus Consalvos, operaio in una fabbrica di sigari.

"Siamo abituati a lasciarci affascinare dalla figura degli artisti, ma il più delle volte hanno avuto vite spaventose"

You don’t need to understand to love it”, oltre ad essere scritto al piano terra del museo, questo slogan sembra coniato da James. “Non ci sono chiavi di lettura o interpretazioni, se le opere ti fanno incazzare o se invece riescono a schiudere qualcosa, dipende solo da te”. C’è qualcosa in me che resta perplesso davanti a Possum Trot, la distesa di bambole nel deserto del Mojave allestita da Calvin e Ruby Black, o nell’ossessione di ACM per gli ingranaggi rotti delle macchine da scrivere, riciclati in un minuzioso complesso architettonico. Ma la perplessità è vinta dal fascino che questo luogo emana già di per sé. Un'aura che ha incantato anche la sensibilità di personaggi come Nick Cave, Maurizio Cattelan e David Byrne, che hanno prestato penna e anima per il museo.

È difficile resistere alla tentazione di leggere le poche righe autobiografiche che accompagnano ogni opera, di fare di ogni pezzo di questo museo una storia, in cui avventurarsi. Così mi fermo a guardare negli occhi tutte le marionette della famiglia di legno costruita da Morton Bartlett, leggo tutte le ossessioni da uomo divorziato, e solo, vergate sui calendari di carta di Prophet Royal Robertson, mi fermo a fare conoscenza con le 12 personalità di Kim Noble, pittrice che racchiudeva, nello stesso paio di mani, dodici diversi stili, e cerco di seguire il filo delle sculture di lana attorcigliate da Judith Scott, “la più bella storia al mondo”, secondo James. Finché, colma di esistenze così lontane dalla mia, ma forse attraversate dalle stesse inquietudini, ritorno al piano terra.

James è ancora dietro al suo computer. Lo saluto cordialmente, senza porgli alcuna domanda. Penso di aver trovato la mia chiave. Da sola.

Foto: © Museum of Everything; video: DocuChick/YouTube