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Tahar Ben Jelloun: rotta a Sud

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Tahar Ben Jelloun, sessantadue anni, il più francese tra gli autori marocchini, torna col suo ultimo romanzo a parlarci dell’immigrazione alle porte dell’Ue, degli «europei, ragazzini viziati» e del suo paese natale.

Partir. Il titolo dell’opera di Tahar Ben Jelloun, che vive da qualche decennio tra Tangeri e Parigi, evoca la malinconia, l’attesa e un altrove sicuramente migliore. La pubblicazione del libro risale allo scorso gennaio; oggi l’appuntamento è fissato al Café de Flore, leggendario café degli esistenzialisti e degli intellettuali francesi e, mentre le icone della letteratura e le “star del nulla” sorseggiano il primo caffè della giornata con gesti ancora esitanti e lo sguardo addormentato. Con le sue poltroncine in pelle rossa e i suoi specchi art déco, la sala è inondata da una luce dorata ed è tutta un sussurrare di gossip della dolce vita parisienne. Ammaliata dalle volute dei fondi del mio caffè da quattro euro e quaranta, alzo la testa verso l’entrata del locale. Ecco Tahar Ben Jelloun varcare la soglia. Imponente, con un cappello in feltro verde, si dirige senza esitazione verso il mio tavolo e si siede: lo sguardo penetrante, il pugno della mano ben chiuso ed un sorriso sereno che si fa strada tra una corta barba bianca. «Siamo nella vetrina della gente che si mette in mostra» mi sussurra con complicità. «Andavo spesso al Flore quando sono arrivato a Parigi, ora non lo frequento quasi più, è diventato il luogo di promozione dello show businnes».

Franco-orientale

Nato a Fès nel 1944, Tahar Ben Jelloun segue un curriculum studiorum in lingua francese, diventa professore di filosofia a Tetuan e nel 1971 lascia il Marocco per stabilirsi nella capitale francese e scrivere una tesi in psicologia. «Non accettavo l’arabizzazione della filosofia nei licei e la divulgazione del pensiero islamico come universale. Per questo sono partito. Tuttavia, non mi sento uno scrittore esule. Nei momenti difficili sapevo che un ritorno non era impossibile e che il mio paese non mi avrebbe chiuso le porte». A proprio agio nella Parigi post-sessantottina, comincia a scrivere regolarmente per la rubrica Livres du quotidien su Le Monde e pubblica il suo primo romanzo, Harrouda, nel 1973. «Non sono un autore arabo, perché scrivo in francese. È una gioia esprimersi in una lingua straniera che si padroneggia, anche se il mio immaginario pullula di civiltà orientale».

Lo sguardo del mio interlocutore, volutamente pudico, è difficile da captare. Accusato di aver preso parte ai moti di Casablanca nel 1965, Ben Jelloun, all’epoca studente, viene spedito per due anni in un campo militare marocchino. L’autore di La nuit sacrée, premio Goncourt nel 1987, intrattiene da allora un ambiguo rapporto col suo paese natale. «Diciamo che provo un amore vigile per il Marocco. Resto lucido e critico, qualità tipiche di uno scrittore. Non posso negare che il paese viva molto meglio di dieci anni fa. Lascio che i giornali critichino, che dicano che i progressi sono insufficienti; il re Mohammed VI ha seguito una strada ben diversa da quella del padre Hassan II, assumendo un compito che mai nessun capo di stato si era addossato: lasciar il proprio popolo libero di dar sfogo agli anni di repressione e di ingiustizie, per poi chiudere il capitolo». Un’evoluzione positiva che non nasconde il desiderio d’evadere dei giovani marocchini. «In questi ultimi quindici anni sempre più giovani che si trovano in una situazione precaria nonostante i loro studi volgono lo sguardo all’Europa fino a crearne un’ossessione. Quello che non possono fare in Marocco lo realizzeranno all’estero».

Sì alla Turchia e al Marocco

L’immigrazione clandestina è la trama dell’ultima opera di Tahar Ben Jelloun e funge da pretesto per la “lenta discesa verso l’inferno” del protagonista Azel, esule marocchino a Barcellona. Quando la morte mediatica di clandestini africani nelle enclavi spagnole di Ceuta e Melilla, lo scorso settembre, aveva ricordato a Bruxelles l’urgenza di trovare una soluzione definitiva al problema dell’immigrazione, Ben Jelloun si era augurato «che una politica comunitaria non si concludesse in termini di repressione e esclusione», essendo del parere che alcuni stati europei gestiscano meglio il problema dell’immigrazione. «La Svezia, ad esempio, ha un buon rapporto con gli immigrati, giacché non ha avuto dei legami storici con i paesi africani». Per Tahar Ben Jelloun, che collabora con il quotidiano italiano La Repubblica e la Vanguardia catalana, l’Europa è «un’opportunità formidabile. Ma i suoi cittadini non sono consapevoli delle possibilità che hanno di vivere in un paese dove regnano pace, sicurezza e ricchezza. Sono dei ragazzini viziati che dovrebbero ringraziare i loro antenati, che hanno sofferto per offrire loro questa grande terra basata sulla libertà, la democrazia e il rispetto dell’individuo». Un’arringa vibrante, che non gli impedisce di vedere degli ostacoli. «Ma una vita piatta è la morte», aggiunge subito, e sulle ipotesi di ulteriori allargamenti dichiara: «se i paesi dell’est fanno parte dell’Europa, bisogna accettare anche la Turchia e il Marocco. Il Marocco può legittimamente far parte dell’Europa, viste le affinità e la lingua in comune col continente». «D’altra parte, se l’Algeria non fosse diventata indipendente, oggi sarebbe europea. Tra l’altro, le due enclavi spagnole in territorio marocchino Ceuta e Melilla sono fisicamente europee, dunque, cosa manca al Marocco?». Se Tahar Ben Jelloun non aspira a un’integrazione pari a quella dei membri fondatori dell’Ue, ipotizza che quest’apertura mediterranea saprebbe «regolamentare il problema dell’immigrazione clandestina e mettere a tacere l’islamismo e il fanatismo».

Partir di Tahar Ben Jelloun, Gallimard, 270 pagg., 17,50 euro.

Pubblicazione prevista in Italia: settembre 2006 (Bompiani, Milano)

Translated from Tahar Ben Jelloun, cap au sud