Suffragette, il coraggio dell'altra metà del voto
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Il film di Sarah Gavron racconta il destino dell'altra metà del voto: un gruppo di coraggiose donne inglesi che, a costo di perdere tutto, cambiarono il futuro delle loro concittadine e delle donne del mondo intero, battendosi per il diritto di voto. Un commento su un film che racconta una pagina importantissima della storia del Novecento, a volte data per scontata.
Troppo spesso con ironia bonaria e senza cattiveria si sente dire «cose di femmine», quando si parla di diritti alle donne, o di femminismo. È successo lo stesso con Suffragette di Sarah Gavron. Il film, in questo momento nelle sale italiane, ricorda che questa pagina di storia, frettolosamente liquidata come una conquista scontata, è stata una lotta vera, portata avanti da alcune coraggiose protagoniste che hanno dedicato la vita alla causa perdendo tutto.
Molti conoscono il nome di scherno con cui venivano chiamate le donne che chiedevano il diritto di voto. Ma non tutti ricordano il sacrificio della militante Emily Dickinson, che, in occasione del derby di Epson si fece travolgere da un fantino e dal suo cavallo davanti agli occhi di re Giorgio V e della stampa di tutto il mondo in nome dei diritti negati alle donne, a cominciare dal voto. Era il 1913. Per un parziale suffragio femminile ci sarebbero voluti ancora 5 anni e la fine della Grande guerra, durante la quale le donne diedero un contributo fondamentale dietro le linee di una nazione in ginocchio.
La pellicola probabilmente non sarà ricordata come un capolavoro del cinema, ma ha il pregio di calare lo spettatore nel contesto. La lotta delle donne, guidate dalla signora Emmeline Pankhurst (una Maryl Streep che appare solo un paio di volte) viene raccontata dalla prospettiva di Maud Watts (l'ottima Carey Mulligan), 24enne che conduce la vita di molte altre donne, ma con la fortuna di essere capolavanderia e non avere un marito violento. Per il resto, 14 ore di lavoro al giorno, paga dimezzata, abusi sessuali al lavoro e rischi per salute. Un'Inghilterra lontana dalle conquiste sindacali, e dalle riforme sociali, dove la legge è scritta dai lord soloni del mondo maschile.
Lloyd George, che pure è un liberale e prelabursita gira gli occhi dall'altra parte, forse perché impegnato nel gioco perverso degli uomini, quella feroce Grande guerra che segnerà per sempre il tempo del dominio di Sua Maestà sugli equilibri del mondo. È in questo contesto che Maud, all'inizio riluttante e timorosa, abbandona la rassegnazione e si lascia coinvolgere nelle azioni delle suffragette, tenute sotto controllo dalle forze dell'ordine e da un cinico, ma a tratti umano capo della polizia Steed (Brendan Glison).
Le azioni delle suffragette si esprimono con manifestazioni pacifiche, sfilate con l’inconfondibile cappello, fino a un'escalation di dimostrazioni più esasperate: qualche vetrina rotta a mattonate e atti dinamitardi simbolici per fare sentire la propria voce. Al gentil sesso non vengono risparmiate le vili e violente percosse della polizia, arresti continui, alimentazione forzata in carcere di fronte agli hunger strike, gli scioperi della fame.
In questo percorso Maud perderà tutto. Il marito Sonny (Ben Whishaw), poco carismatico e prostrato alle leggi del conformismo dei tempi, la caccia di casa e il piccolo figlio George sarà adottato da una coppia di borghesi benestanti.
Un film che gli uomini, ma soprattutto le giovani donne dovrebbero vedere. Perché l’esercizio di diritti sacrosanti conquistati con il prezzo della violenza e della stigmatizzazione vale molto più delle quote rosa imposte dall'alto o di provvedimenti politically correct per cui oggi si deve dire avvocatessa, ministra o presidentessa.
Nota finale. Alla fine del film scorrono i nomi di alcuni Paesi. L'Italia sta nella seconda parte della classifica, perché su base nazionale, dalle nostre parti le donne votarono per la prima volta nel 1946. Poi c'è una sorpresa. Nella civile Svizzera le donne votarono nel 1971. Mente in Arabia Saudita solo nel 2015 hanno avuto la promessa del voto. Un diritto fondamentale affinché l'uomo, citando Kant, possa uscire dallo stato di minorità da imputare a sé stesso.