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Stiglitz: “la globalizzazione? non funziona”

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Default profile picture max vallejo

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Default profile picture paola menicacci

Asimmetria del processo, dogmatismo ideologico delle istituzioni internazionali: Joseph Stiglitz, premio Nobel per l’economia nel 2001, spiega tutti i mali del processo di globalizzazione.

Partigiani ed oppositori della globalizzazione sostengono due visioni contraddittorie degli effetti dell’apertura del mercato dei beni e dei capitali alla concorrenza internazionale. Secondo i primi, la globalizzazione commerciale e finanziaria è fonte d’efficacia e di prosperità per tutta l’economia. I secondi, invece, temono l’avvento di un mondo meno giusto, meno trasparente, dove si farebbe più profondo lo scarto tra ricchi e poveri. Gli uni prendono come esempio il miracolo economico delle quattro tigri asiatiche (Corea, Singapore, Hong Kong e Taiwan): un lungo periodo di crescita sostenuta, i cui frutti hanno potuto essere divisi tra tutti. Gli altri, al contrario, citano i paesi dell’America latina che, incoraggiati a diminuire le loro barriere doganali e a privatizzare col “consenso di Washington”, hanno visto la loro crescita ridursi a metà durante gli anni ’90, quando le disuguaglianze erano più profonde e la disoccupazione aumentava.

Per non parlare poi degli “allievi modello” che applicavano alla lettera le raccomandazioni che gli venivano fatte, come l’Argentina, e sono stati poi i più duramente toccati dalla crisi degli anni ’97-’98. Mentre il Cile, meno propenso all’applicazione di questi principi – in particolare in materia di apertura ai capitali internazionali – è stato meno toccato da queste crisi. L’idea che la globalizzazione abbia un effetto benefico su tutta l’economia mondiale, sembra quindi poter essere contestabile visto che anche i dati empirici si discostano profondamente da questo dogma così ingenuo. Per quali ragioni? Esaminiamo le argomentazioni di Stiglitz.

Il Nord tira a sé la coperta del mondo

Prima di tutto, la globalizzazione del commercio come è promossa oggi è fondamentalmente asimmetrica, a tutto vantaggio dei Paesi del Nord. L’esempio che riguarda l’agricoltura è sorprendente: mentre da un lato predicano una più grande liberalizzazione degli scambi e un mercato sempre più concorrenziale, gli Stati Uniti e l’Europa continuano a sovvenzionare le loro produzioni agricole. Con un risultato disastroso per i Paesi in via di sviluppo, la cui economia si basa essenzialmente sulle esportazioni agricole. La produzione dei Paesi ricchi, sostenuta artificialmente, aumenta così l’offerta mondiale e fa precipitare i prezzi. L’Occidente protegge le sue attività agricole, ad un costo esorbitante per la comunità nazionale (che finanzia le sovvenzioni) e per la comunità internazionale (che ne sopporta le conseguenze).

Allo stesso tempo, poiché si è voluta estendere l’apertura dei mercati al settore dei servizi, i negoziati si sono concentrati su alcuni settori, ad esempio quello finanziario, dove i Paesi sviluppati sono esportatori, invece di riguardare settori, come quello della costruzione, che richiedono una mano d’opera più qualificata e nei quali i Paesi in via di sviluppo sono più competitivi.

Un ultimo esempio, molto discusso al vertice dell’Organizzazione Mondiale del Commercio a Doha: i diritti di proprietà intellettuale. Il dibattito si è focalizzato sulla protezione dei brevetti di nuovi medicinali, in un contesto segnato dalle devastazioni dell’AIDS in Africa. Mentre avrebbe dovuto riguardare la protezione delle scoperte in generale, e non solo l’innovazione in campo farmaceutico. I Paesi in via di sviluppo si sono impegnati a dotarsi di un quadro giuridico che protegga la scoperta e che rischia di ridurre l’accesso di questi Paesi alle nuove tecnologie e il necessario trasferimento di quest’ultime dal Nord verso il Sud. Cosa che, sul piano sanitario, può avere delle gravi conseguenze se il detentore di un brevetto farmaceutico rifiuta di concedere una licenza di fabbricazione ad un Paese, se non ci sono garanzie certe di guadagno.

Globalizzazione finanziaria: un’arma a doppio taglio

Un secondo fattore d’insuccesso dell’attuale processo di globalizzazione è la contraddizione permanente tra l’austerità del bilancio imposta dall’FMI e il costo delle riforme richieste per l’apertura commerciale. Questa è incoraggiata, dato che permette una migliore ripartizione delle risorse produttive tra i Paesi, in funzione delle possibilità di ciascuno. Trasferire delle risorse da un settore verso un altro significa, però, creare dei posti di lavoro e prendere in prestito dei capitali sul mercato. Cosa che richiede un investimento importante, incompatibile con uno stretto equilibrio di bilancio e dei tassi d’interesse troppo elevati. Sarebbe d’altronde ingenuo pensare che quest’ultimi determinino un’entrata massiccia di capitali stranieri attirati da rendimenti elevati, poiché bisogna prendere in considerazione l’accresciuta probabilità di fallimento delle imprese locali, strangolate dal costo del loro indebitamento.

E’ per questo motivo che l’apertura finanziaria dei Paesi emergenti si è rivelata essere un’arma a doppio taglio. Se da una parte, in un primo momento, ha permesso l’afflusso di capitali stranieri, essa non può impedire il riflusso di questi stessi capitali quando il loro rendimento diminuisce, in ragione – ironia della sorte – del peso del debito. Questi flussi e riflussi lasciano l’economia locale esangue, incapace di onorare i suoi impegni e amplificando il riflusso di capitali. Un vero circolo vizioso. I Paesi, come il Cile, più circospetti di fronte alla globalizzazione finanziaria sono stati, dunque, più risparmiati dalla crisi del debito rispetto all’Argentina e al Brasile.

Caduta del 75% del PIB moldavo

Anche l’onnipotente paradigma dell’efficienza dei mercati può essere contestato. Il mercato permette una migliore ripartizione del rischio tra gli agenti che lo costituiscono. Questo è vero nei Paesi sviluppati: l’innovazione finanziaria ha permesso l’elaborazione di prodotti sofisticati che permettono al cliente – l’impresa o lo Stato – di premunirsi contro le variazioni sul mercato dei tassi, delle monete, e delle azioni, che possono penalizzarlo. Il rischio è affrontato da agenti specializzati e meglio informati che mediano una contropartita finanziaria.

Ma la realtà è tutt’altra nei Paesi in via di sviluppo che sostengono interamente il rischio associato alle fluttuazioni finanziarie. Così, la Moldavia non ha resistito alla liberalizzazione finanziaria. In dieci anni il suo PIB è precipitato del 70% e la povertà è stata moltiplicata per 10, conseguenza questa del peso enorme del rimborso del debito sui redditi nazionali (circa il 75%). I prestiti contratti in euro o in dollari sono stati fatali per l’economia poiché la moneta moldava si è svalutata. L’apertura ai capitali stranieri deve dunque, come dimostra questo esempio, essere unita a garanzie finanziarie contro le fluttuazioni della moneta o dei tassi. Il mercato da solo non offre queste garanzie.

Dogma ideologico nel FMI

Infine, le istituzioni internazionali, e in particolare l’FMI, hanno, in ragione del loro dogmatismo, un’importante fetta di responsabilità nelle sconfitte della globalizzazione. La dottrina liberale ha impiegato più di un secolo ad essere applicata nei Paesi che predicano oggi la privatizzazione e l’immediata apertura al commercio e ai capitali. Le economie sviluppate hanno da molto tempo fatto ricorso al protezionismo, di cui esse sono oggi i maggiori detrattori. Le raccomandazioni fatte attualmente ai Paesi in via di sviluppo si fondano più su delle considerazioni ideologiche che su delle osservazioni empiriche degli effetti delle politiche macro-economiche. Si aggiunga poi che il lasso di tempo necessario ad osservare che una misura è effettivamente nociva, a correggerla, e a beneficiare di questo cambiamento di rotta, impiega molti anni. Un abbassamento dei tassi d’interesse troppo tardivo non farà riemergere le imprese che sono fallite durante questo periodo e sarà tutto il tessuto macro-economico ad essere infettato da questo errore di giudizio.

Per tutte queste ragioni, la globalizzazione non onora ancora tutte le sue promesse, non permettendo, così, una distribuzione equa dei suoi benefici. Se il dogma neoliberale ha subito un brusco movimento all’indietro di fronte alle realtà dell’economia, resta da fare ancora molto cammino verso una mondializzazione più giusta. La globalizzazione deve apportare un guadagno reciproco; è un principio che non deve essere respinto. Miglioriamo, dunque, le modalità di questa globalizzazione affinché questo guadagno sia condiviso tra tutti.

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Translated from La globalisation, pour le pire et pour le meilleur