Srebrenica: un film per non dimenticare
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Tra le colpe internazionali e le brutalità di una guerra civile, una donna combatte, da sola, per la salvezza del suo popolo e della sua famiglia. Così, a ventisei anni dalla tragedia della strage di Srebrenica, “Quo vadis, Aida?” - delicato racconto cinematografico del genocidio - ci ricorda il valore totale della lotta e della vita.
Inizialmente rilasciato nel 2020 e candidato agli Oscar di quest’anno come miglior film straniero, “Quo vadis, Aida?” è un film bosniaco scritto, diretto e co-prodotto da Jasmila Žbanić. La protagonista, interpretata magistralmente da una magnetica Jasna Đuričić, è una insegnante di nome Aida. La sua storia è ispirata alle vicissitudini di Hasan Nuhanović e rappresenta, dopo più di un quarto di secolo di sedimentazione, una testimonianza devastante della strage di Srebrenica; una testimonianza che, in questa efficacissima rappresentazione cinematografica, coinvolge per tutti i suoi centouno minuti lo spettatore, commuovendolo e sconvolgendolo, per poi deflagrare nella sua coscienza in un turbinio di riflessioni.
Dove vai, Aida?
Per la sua conoscenza dell’inglese, Aida ha iniziato, durante la guerra bosniaca del ‘92-‘95, a collaborare come interprete con il contingente olandese stanziato dalle Nazioni Unite a protezione e difesa di tutta la regione circostante, dichiarata safe zone da una risoluzione internazionale. Fatalmente, Aida si ritrova al centro delle complesse e tragiche dinamiche che porteranno a quella che passerà alla storia come la strage di Srebrenica e che sarà riconosciuta, da una sentenza del 2007 del Tribunale Internazionale di Giustizia, come genocidio.
Aida è infatti presente, la notte del 10 luglio 1995, all'incontro fra il sindaco e i generali a capo della base umanitaria, ed è lei a tradurre gli scambi concitati in cui il sindaco supplica, richiede, esige l'intervento delle Nazioni Unite a protezione della popolazione di Srebrenica - ormai incalzata alle porte della città dalle truppe serbe del generale Mladić. Sono le labbra della donna a ripetere al politico bosniaco le fallaci rassicurazioni dei comandanti olandesi: i caccia dell'ONU e della NATO sono pronti a bombardare, se l’attacco non si dovesse fermare prima dell’alba. Poche ore dopo, infrantesi le promesse dei militari e iniziata l'incontrollata e brutale conquista della città, Aida si ritrova bloccata nella base internazionale - probabilmente l’unico posto sicuro nel raggio di decine di chilometri - insieme a moltissimi dei suoi concittadini. Un'altra moltitudine di migliaia si accalca intanto al perimetro del compound già sovraffollato, cercando ricetto, in fuga, aggrappata ai pochi averi portati in salvo. Nel frattempo spari, per ora in lontananza: i soldati serbi uccidono, stuprano e razziano, nella città e nelle campagne tutto intorno.
Da quel momento, Aida sarà il fulcro cinematografico di tutti gli eventi che porteranno infine alla tragica uccisione di un totale di 8372 bosgnacchi (gruppo etnico a prevalenza musulmana da distinguersi dai bosniaci, nome che indica tutti gli abitanti della Bosnia). Sarà attraverso i suoi occhi che lo spettatore seguirà lo svolgersi degli avvenimenti e sarà la sua storia personale a fungere da contenitore e veicolo per la testimonianza dell'enormità della catastrofe che travolse in quei giorni la popolazione di Srebrenica, catastrofe così tremenda e spietata da classificarsi come una vera e propria pulizia etnica e tale da far condannare il generale Mladić ad un ergastolo per crimini contro l'umanità.
“Condividere anche solo una particella, un gene, con ciò che ha generato tutto quel male, cosa fa di noi?”
Il film sembra voler dare spazio alla speranza come possibile punto di vista, ma invece è la messa in discussione dell'idea stessa di fiducia a farla da padrone. La fiducia cade pezzo a pezzo tappando ogni spiraglio di luce, fino ad ottenere l'oscurità, completa e sconcertante. È un processo metodico e quasi impercettibile, delicato ma spietato, inarrestabile. La regista srotola la trama con maestria, mantenendo un equilibrio sottile fra narrazione collettiva e specificità individuali. Sembra quasi sbandare ad un certo punto, quasi concentrandosi troppo sulle vicende particolari di Aida, ma torna, infine, con la disperazione e la solennità di un urlo soffocato, a dipingere la tragedia di un popolo intero, dei morti e dei sopravvissuti.
Funziona, perché lo stesso processo di graduale collasso di ogni speranza si riflette anche nella postura dello spettatore, ogni minuto più accartocciata, più impotentemente inchiodata ai braccioli, come cercando una qualche forma di appiglio contro l'orrore - la bocca sempre più spalancata nello stupore. Ricordandosi, poi, che la storia raccontata nel film è una storia vera, il processo di disintegrazione della speranza diventa così pervasivo e invadente da oltrepassare la quarta parete, fino a penetrare la nostra stessa realtà: condividere anche solo una particella, un gene, con ciò che ha generato tutto quel male, cosa fa di noi?
In effetti, tutto ciò che è narrato nel film è estremamente aderente alla realtà: il comportamento inconsistente e colposamente disumano dell'ONU, la brutalità degli uomini di Mladić, le circostanze ingannevoli e smaccatamente insensate. La storia reale di quei giorni, però, ha contorni ancora più gravi, orribilmente più gravi, di quelli descritti nel film, partendo proprio dalle testimonianze dei sopravvissuti a quei giorni. Ecco come, nel concentrarsi sulla storia di Aida, non c'è nessun eccessivo attaccamento personale da parte della regista: c'è una necessità. La storia di Aida è una delle poche, se si vuole parlare di Srebrenica, che si può raccontare senza esserne inghiottiti.
La scelta della regista è dunque una scelta di delicatezza, di rispetto e cura, nei confronti della memoria e degli spettatori: Aida, dalla sua posizione privilegiata di collaboratrice internazionale, rappresenta un punto di vista che non costringe a calarsi nelle profondità infernali dell'animo umano, che non costringe a bere fino all'ultima amarissima goccia tutta la testimonianza di quell'acme abissale di violenza, coronamento corrotto e spaventoso di anni di guerra civile ed etnica, portando comunque lo spettatore a realizzarne la realtà, a sentirla in punte persistenti di disagio fisico e sconvolgimento morale.
La visione di “Quo vadis, Aida?” innesca una moltitudine di riflessioni: dal coinvolgimento colposo degli organi di controllo internazionali - che prima hanno promesso protezione agli abitanti di Srebrenica e hanno poi lasciato campo libero a Mladić e ai suoi uomini -, alle incredibili e dolorose conseguenze di una guerra civile fra fratelli e sorelle, fra compaesani, fra persone che si affrontano con la rabbia di un odio covato per decenni e che dopo quella carneficina dovranno tornare a coabitare le stesse terre, fino alla riflessione che ogni male, anche il più grande, è in realtà composto da minuscole particelle e che sono sempre tanti piccoli eventi a generare, con la loro accumulazione, un momento di pura e totale devastazione come quello di Srebrenica.
Ma, ancor di più, la visione di film come “Quo vadis, Aida?” ci ricorda quanto prezioso sia il bene, quanto magnifica e sorprendente sia la luce e quanto pericoloso lasciare che si spenga. E questa consapevolezza non si ferma ad una passiva constatazione, ma diventa memento e poi azione, spingendoci con forza a difendere tutto ciò che di prezioso e sacro c'è nella natura umana.
Ciò che facciamo della nostra vita è una scelta, ed essere faccia a faccia con un tale orrore ci ricorda come non possiamo, mai, permetterci di considerarci assolti
L'estremità devastante della storia di Aida ci grida aiuto e ci mostra, spietata, quanto gravi possano essere le conseguenze del sonno della nostra lotta: è un appello alla resistenza, in piccolo e in grande, un monito solenne a non sottovalutare mai la banalità del male, la sua incredibile potenza distruttrice. Ciò che facciamo della nostra vita è una scelta, ed essere faccia a faccia con un tale orrore ci ricorda come non possiamo, mai, permetterci di considerarci assolti.
Questo invito è anche il senso dell'ultima scena del film, in cui Aida torna dopo anni a Srebrenica. La città è ormai abitata da una mistura posticcia di serbi e bosniaci, in cui si confondono vittime e carnefici, colpe e innocenze. Aida torna per insegnare nella scuola del paese, ai figli dei suoi aguzzini. Lo fa sorridendo, un sorriso privo di gioia ma determinato: Aida non si arrende e continua a coltivare la luce con tutta la sua forza, che è l’unica cosa che le rimane.