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Srebrenica 1995-2015, c’è un tempo per nascere e un tempo per morire

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società

L'11 luglio 2015 si sono ricordati i venti anni dal genocidio di Srebrenica, in Bosnia Erzegovina. Una cerimonia tesa, e sotto i riflettori dei media e della politica (sebbene accesi per un solo giorno). "Per ogni cosa c’è il suo momento, il suo tempo per ogni faccenda sotto il sole", si legge nel Qoelet (3, 1): in questa parte del mondo non sembra ancora giunto il tempo per la riconciliazione.

di Silvia Maraone*

Che la tensione per il ventennale dell’eccidio di Srebrenica fosse alta, lo si era già capito tre giorni prima dell’11 luglio, quando la Russia aveva posto il veto sulla risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’ONU: affermava «l’accettazione dei tragici fatti di Srebrenica come un genocidio», una frase non costruttiva e motivata politicamente, per l’ambasciatore russo.

Questo avveniva dopo che il domenicale britannico The Observer aveva pubblicato un reportage basato su documenti segreti declassificati: proverebbero la responsabilità dei Governi occidentali (Francia, USA, Gran Bretagna) consapevoli che, per metter fine alla guerra in Bosnia Erzegovina (1992-95), sarebbe stato necessario sacrificare le “zone protette” (come Srebrenica), create dall’ONU a tutela dei musulmani bosniaci.

Le tensioni non erano mancate nemmeno in precedenza, quando Tomislav Nikolić, l’attuale Presidente serbo, si era rifiutato di partecipare alla commemorazione se il Presidente bosniaco-musulmano Bakir Izetbegović non avesse a sua volta commemorato i caduti serbi della regione.

Chi è senza peccato scagli la prima pietra

Alla fine, la presenza della Serbia è stata garantita dal Primo ministro, Aleksandar Vučić, che – solo dopo il veto russo – ha confermato la sua presenza per rendere omaggio alle vittime della violenza (la parola genocidio però, no, non si usa). Quel Vučić, che chiede la “benedizione” del Sindaco di Srebrenica e delle madri di Srebrenica, è la stessa persona che in un suo discorso al Parlamento serbo il 20 luglio del 1995 disse: «Voi uccidete un serbo e noi uccideremo cento musulmani».

La stessa frase è comparsa in uno striscione in cima alla collina del cimitero, quando Vučić ha fatto la sua comparsa alla cerimonia: mentre il serpentone della delegazione passava, sono iniziate a volare bottiglie, scarpe e pietre. La folla ha cominciato ad agitarsi, la tensione si è alzata. Finché il Gran Mufti al microfono ha invitato i fedeli a girarsi e a pregare: «Non lasciate che chi ha causato il nostro dolore si prenda la nostra dignità».

Poche ore dopo, i media serbi parlavano di un attentato. Vučić, ha cercato in parte di smorzare i toni. L’associazione delle Madri di Srebrenica e il Sindaco hanno chiesto pubblicamente scusa, condannando il gesto. L’unico dato certo è che invece di prestare attenzione al dolore dei sopravvissuti, in lutto per i loro morti, si è dato spazio nuovamente alla politica e alla propaganda, che da oltre vent’anni tengono in scacco questa parte del mondo.

La leggerezza di una costola

In questo clima politicamente teso, la commemorazione è andata avanti secondo lo schema classico che si segue dal 2003, quando Bill Clinton ha inaugurato ufficialmente il Memoriale di Potočari (località distante pochi chilometri da Srebrenica). Ogni anno da allora, via via che vengono riaperte le fosse comuni, riesumati i resti (parziali), identificate le vittime attraverso il DNA, le famiglie si riuniscono al cimitero l’11 luglio, per seppellire ciò che resta dei loro cari. Quest’anno sono stati 136 (il più giovane aveva 15 anni, il più anziano 75) a trovare posto insieme agli altri 6.241 che già riposano nel cimitero.

La leggerezza con cui passano sopra le teste dei partecipanti i tabut, le casse di legno ricoperte da un telo verde con cui sono seppelliti i caduti, rende evidente come all’interno non ci siano che poche ossa asciugate dal tempo. Mi raccontava Ado che di suo zio avrebbero sepolto solamente una costola quest’anno, ma almeno avrebbero avuto finalmente un luogo su cui pregare e un nome scolpito su una lapide, non più solo l’iscrizione nella lista dei caduti e dispersi. Per dare dignità ai propri morti. Dostojanstvo. Quella dignità violata dall’omicidio brutale di 8.372 maschi. Adulti, giovani, anziani. Torturati, malmenati, giustiziati e sepolti; dissepolti con i bulldozer, di nuovo sepolti a pezzi, in massa, e infine (ma non tutti) dissepolti e inumati insieme ad altre centinaia nel cimitero di Potočari.

Pochi decidono di dare sepoltura ai propri cari in altri luoghi: come se questo fosse un processo di massa in tutto il suo svolgimento. Dall’assedio di una massa di persone (30 mila) nella cittadina bombardata e affamata nel 1993-95, alla massa che scappa per cercare protezione nella base delle Nazioni Unite. Una massa di uomini, separata dalle proprie madri, mogli, sorelle, figlie, e portata sotto gli occhi dei loro protettori nei camion, da cui scenderanno per essere fucilati in massa. Per finire in una fossa comune. E infine, ottenere un funerale di massa. Collettivo.

I riflettori puntati su Srebrenica

Molti politici partecipano al rito dell’11 luglio. Sono anni che si ascoltano le stesse parole. Ma alle decine di migliaia di persone che partecipano queste cose non interessano. La massa si muove dal centro di Potočari – lungo la strada aprono baracchini che vendono bibite, ćevapčići e agnello – al Dutchbat Compound, la vecchia base ONU. Avanti e indietro. Finiscono le dichiarazioni dei politici, depongono i fiori, prendono posto in tribuna. Allora il fiume di persone rientra nel cimitero, si inchina e si rialza secondo i dettami della preghiera, invocando la pace per i propri morti e la pietà di Allah. In via del tutto eccezionale partecipano le donne (per l'Islam la loro presenza durante il rito funebre sarebbe vietata).

La sepoltura effettiva è l’ultimo e unico momento (relativamente) privato che viene concesso. Le vanghe stanno ancora colpendo il terreno che il fiume di persone è di nuovo in movimento. Alcuni si fermano a mangiare e a bere, molti si dirigono ai parcheggi e cercano di far ritorno a casa, bloccandosi per ore in una colonna soffocante. Due ore di media per fare meno di 12 chilometri. Con la polizia serbo-bosniaca che non muove un dito per facilitare le manovre.

In parallelo si assiste alla Marš Mira, marcia della pace, contraltare della Marć Smrti (della morte) del 1995, degli oltre 10 mila uomini in fuga da Srebrenica attraverso i cento chilometri di boschi e campi minati, per raggiungere il territorio amico di Tuzla. La marcia, inaugurata nel 2005 con 300 partecipanti, quest’anno ha visto la presenza di quasi 10 mila persone. Ad aprire la colonna i sopravvissuti all’eccidio. Dietro, migliaia di persone stravolte dal caldo e dalla fatica, quasi tutti con appuntata la spilla-simbolo del fiore di Srebrenica, ricamato in bianco e verde.

Ad aspettare l’arrivo dei marciatori, quest’anno, c’erano soprattutto giornalisti. Il silenzio dei marciatori era rotto dagli scatti in serie dei fotoreporter. È nell’ex hangar ONU, dove si trovavano 136 bare in attesa di sepoltura, che hanno consumato il loro primo “pasto di sangue”: non appena qualcuno si fermava a pregare su una bara o deporre un fiore, ecco partire le raffiche degli obbiettivi, piazzati a pochi centimetri dalle facce lacrimanti. Al tempo stesso non riesco a scacciare la sensazione che ci fossero persone, tra i personaggi pubblici, venute solo per finire sui giornali.

Non sazi, sin dalla mattina dell’11, si potevano vedere fotografi prendere posizione presso le fosse vuote, in attesa della fine della preghiera. Un amico slovacco, a Srebrenica per commemorare ma anche per fare un reportage, ha chiesto loro di smetterla di fotografare a scatto continuo in faccia alle persone. «Fuck off I’m here to work» è stata la risposta.

E mi chiedo: il mondo ha ancora bisogno di queste immagini per capire cosa è successo? Il veto alla parola “genocidio” della Russia ci rende così ciechi da non vedere il mare di tombe che costella queste colline? Non ci bastano i video delle uccisioni, insieme alle fosse comuni, alle decine di pagine di testimonianze?

Di chi è la colpa?

Nel film girato dal bosniaco Danis Tanović, No Man’s Land, si assiste ad uno scambio tra i due protagonisti su chi abbia “iniziato la guerra”. La risposta è sempre condizionata da chi tiene in mano un fucile e minaccia l’altro. Quando è il bosniaco a tenere l’arma, il serbo si autoaccusa dicendo “noi abbiamo iniziato”. E viceversa. Perché la risposta è così importante? Perché purtroppo in questo contesto culturale, sono secoli che si va avanti a cercare di addossare le colpe gli uni agli altri. Fenomeno senza inizio né fine, ma che vede compiersi in mezzo i peggiori massacri, nel nome della giustizia, che in questo luogo significa vendetta.

«È finalmente venuto il momento in cui, dopo le rivolte contro i turchi, ci possiamo vendicare dei musulmani», diceva alle tv il generale delle truppe serbo-bosniache, Ratko Mladić, a Srebrenica l’11 luglio. E finiscono nella centrifuga di questa storia violentata anche la NATO e i caschi blu olandesi della missione UNPROFOR: 400 soldati, di giovane età, con armi leggere, a proteggere una “zona sicura” di 30 mila persone. Ma fino a che punto possiamo dare loro la colpa? Avrebbero potuto impedire l’eccidio di più di 8 mila persone? Nel 2014 il Tribunale dell’Aja per i crimini nella ex-Jugoslavia ha riconosciuto civilmente colpevole il Governo olandese per aver consegnato all’esercito serbo-bosniaco i 300 uomini rifugiatisi nel compound ONU.

È sufficiente questo risultato a poter dire che “giustizia” è fatta? A mio parere la colpa non è delle Nazioni Unite, ma di chi ha perpetrato il genocidio. Di chi ha pianificato e organizzato questo crimine. E dunque i leader dei Paesi in guerra, il serbo Slobodan Milošević e il serbo-bosniaco Radovan Karadžić. A cascata responsabili sono gli esecutori materiali: i soldati, i paramilitari che hanno premuto il grilletto, sgozzato, stuprato, decapitato. In primis il loro comandante, Ratko Mladić. Sono colpevoli quelli che hanno dato la loro terra per scavare le fosse comuni, testimoni di quello che accadeva. Sono colpevoli quelli che sapevano e non hanno fatto nulla. E quindi, sono anche i soldati olandesi e la NATO che videro, ma non intervennero. I Governi che si sono giocati il destino di queste persone, senza fare altri conti se non con i propri interessi.

Tutti sapevano cosa stava succedendo, in tempo reale. I satelliti riprendevano le immagini di quel che accadeva, dal vivo. Spostamenti di popolazione, la colonna nei boschi che si arrendeva ai soldati, le ruspe in azione, gli scavi e sepolture. Ma al momento la giustizia internazionale è ferma alla sentenza del 2014 che ha confermato l’ergastolo di due ufficiali coinvolti nel massacro, decretando nero su bianco che si trattò di genocidio. E tutti gli altri? Venti persone sono state processate all’Aja per i crimini commessi a Srebrenica nel luglio 1995. I processi, tra gli altri, a Ratko Mladić e Radovan Karadžić sono ancora in corso. Molti altri camminano come uomini liberi, nella cittadina di Srebrenica come nel resto dei Balcani. Vittime e carnefici d nuovo insieme, in un gioco delle parti più grande di loro.

Quale riconciliazione?

Ci sarà mai pace in questo luogo? Oltre al silenzio che regna nel cimitero di Potočari e nella piccola cittadina di Srebrenica, abitata da fantasmi e da poche centinaia di persone. Ci sarà mai un reale tentativo di dialogo, di assunzione delle colpe, di vittoria della giustizia e infine di perdono? Cos’è stato fatto in questi vent’anni qui, e nei Balcani, per tentare di spegnere le braci ancora calde alimentate da violenza e nazionalismo?

Di certo non sono i rappresentanti politici (o l’etnopolitica imposta dagli accordi di pace), a supportare un processo di giustizia e verità. Né i media locali a smorzare i toni, foraggiati da (e foraggiatori dei) suddetti politici. Non ci sono organizzazioni internazionali che siano mai state in grado di lavorare sui traumi e sul superamento della violenza. Ci sono ragazzi nati poco dopo il 1995 che indossano magliette con scritto: “8.372 motivi per odiarvi”, riferendosi alle vittime del genocidio. La stessa cosa all’opposto: nei pressi di Srebrenica sono affissi poster con la faccia di Putin, “amico dei serbi”, colui che ha messo il veto sulla parola “genocidio”.

Testi scolastici che raccontano versioni diverse degli stessi orrori. Eroi nazionali che sono criminali di guerra. Se vent’anni vi sembrano tanti, ricordate: nei Balcani ci si sta vendicando ora di ciò che è accaduto nel 1389 tra Serbi e Ottomani.

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Questo testo è stato editato e adattato per essere ospitato su cafébabel. La versione originale e integrale dell’articolo si può trovare sul blog personale dell’autrice.

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*Silvia Maraone è cooperante dell’ONG IPSIA. Ha iniziato a frequentare la Bosnia Erzegovina negli anni Novanta. Ha scritto una guida su Sarajevo.