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Spagna, tra riconciliazione e nuove paure

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Quasi due anni dopo gli attentati di Madrid e sei anni dopo i disordini a sfondo razziale nel villaggio andaluso di El Ejido, la società spagnola si trova ancora ad esitare tra il rifiuto e l’accettazione dei musulmani.

Giorno di inizio del Ramadan 2005, anno 1426 del calendario musulmano: la moschea madrilena “M-30”, così chiamata perché adiacente all’omonima circonvallazione di Madrid, è costantemente affollata di fedeli riuniti in preghiera per celebrare la rivelazione a Maometto dei primi versetti del Corano da parte di Allah. Digiuno e astinenza sessuale sono d’obbligo fino al calar della notte. La (Commissione islamica di Spagna (Cie) ha siglato un accordo col governo per permettere ai musulmani spagnoli di conciliare fede e lavoro. Istituzione di rappresentanza dei musulmani spagnoli, composta da sunniti e sciiti, la Cie lavora anche per favorire l’integrazione sociale di questa comunità. Ciononostante l’incomprensione interreligiosa è tangibile e reale in un Paese a forte tradizione cattolica.

«Ci trattano come arabi piantagrane»

Lavapiès è un vecchio quartiere al centro di Madrid che conta 33.000 abitanti di 88 differenti nazionalità, e una comunità marocchina molto numerosa che si sente esclusa e discriminata, non solo in quanto straniera, ma soprattutto perché musulmana. Muhammad, trentadue anni, parla apertamente delle discriminazioni e dei pregiudizi di cui è vittima. «Ci vedono come dei moros (arabi) piantagrane perchè gli autori degli attentati dell’11 marzo venivano da questo quartiere. I sospetti su di noi nascono spontanei perché ci assimilano a loro», spiega. Prima di essere arrestati, gli esecutori della strage della stazione di Atocha, Jamal Zougam, Mohamed Chaoui et Mohamed Bakkali, vivevano e lavoravano qui.

Appeso ad un balcone, uno striscione in cui si legge, in arabo e in spagnolo, «Papeles para todos»: permessi di soggiorno per tutti. A due anni di distanza dal dramma nel quale perirono 190 persone, la vita sembra scorrere tranquilla in questo quartiere, ma in realtà molti degli immigrati residenti si sentono come sorvegliati, emarginati. Quasi tutti hanno un aneddoto da raccontare sullo zelo della polizia spagnola. Come Munir, ad esempio, incontrato in via Caravaca, a pochi metri da quello che era il negozio di Jamal Zougam: «dopo gli attentati il quartiere era diventato invivibile, i controlli erano continui, in mezzo alla strada. E i poliziotti ci dicevano che stavano solo facendo il loro lavoro! Adesso la situazione è un po’ più tranquilla. Ma non sono certo gli ecuadoregni ad essere controllati». Tutti indistintamente tengono a precisare che l’Islam non ha niente a che vedere con Al Qaeda e che i musulmani sono dei cittadini come gli altri. Come spiega Elharif, immigrato marocchino: «L’Islam non ha nulla a che fare con tutto ciò…Quelli che hanno messo le bombe non sapevano cos’è l’Islam. E noi musulmani algerini, marocchini, senegalesi siamo esattamente uguali agli altri».

Una tolleranza in agrodolce

Per Ahmed Sefiani, presentatore televisivo di origine marocchina sul canale andaluso Canal Sur, «il quartiere Lavapiès è emblema di un contesto particolare, un luogo in cui si assiste ad un’emarginazione nei confronti di tutti gli immigrati, i quali ritrovandosi tra di loro, tendono ad esacerbare il razzismo». Come accadde nel villaggio andaluso di El Ejido, nel quale, nel febbraio 2000 scoppiarono dei violenti scontri tra popolazione autoctona e immigrati magrebini.

Ma per Ahmed la realtà spagnola non si riduce a questi episodi: la sua religione, come pure la sua origine, non sono in nessun caso da considerarsi come un handicap. Ha sempre intrattenuto degli ottimi rapporti sia con la comunità ebraica che con quella cristiana e «comunque, la comunità più diffusa in Spagna è quella degli atei!», dice. Un’affermazione che smentisce i risultati di una recente indagine svolta dal Centro pubblico spagnolo di ricerca sociologica, secondo cui il 79% degli spagnoli si considera cattolico, e il 48% di questi si dichiara praticante.

«Una reazione esemplare agli attentati di Madrid»

L’11 marzo ha lasciato Ahmed incredulo perché non è questo il suo modo di vivere la religione islamica. Secondo lui, «la reazione della società spagnola davanti a questi tragici avvenimenti è da considerarsi esemplare, soprattutto quella del Presidente dell’Associazione delle vittime dell’11 marzo… Personalmente non mi sono mai sentito emarginato o rifiutato». È vero però che, dopo la tragedia di Madrid, gli appelli alla tolleranza si sono moltiplicati. Ahmed ammette a fior di labbra che a volte, ad esempio quando prende l’aereo, si rende conto di suscitare inquietudine tra i passeggeri e il personale addetto alla sicurezza. «Ma lo stesso succede con i baschi!», aggiunge ridendo. Se la sua posizione sociale gli permette di evitare certi pregiudizi? Forse. «I poveri hanno sempre torto», il che avviene dappertutto, ammette.

Sotto molti aspetti la situazione dei musulmani in Spagna è paragonabile a quella dei musulmani francesi o olandesi. Un esempio? La questione del velo che ha suscitato tante polemiche in Francia ha prodotto lo stesso effetto anche in Spagna. Nel 2002 i responsabili di un liceo privato di Madrid hanno negato il permesso di portare il velo in classe ad una marocchina di tredici anni, poi trasferita in una scuola pubblica. Il Ministro dell’Educazione, Pilar del Castillo, aveva affermato all’epoca che, malgrado l’ostentazione di simboli religiosi nelle scuole non fosse «appropriata», questa comunque non avrebbe dovuto essere «proibita».

Una posizione che rende l’immagine sfocata di un paese titubante, che si è sentito tradito dopo i fatti dell’11 marzo 2004 ed ha ormai paura dei suoi immigrati.

Translated from L'Espagne entre tolérance et crainte