"Silencio"! Va ora in scena l'incubo chic di David Lynch
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Lo ammetto, quando vedo un uomo con la barba, la coppola e i tacchi a spillo o un cantante canadese mulatto che si avviluppa come un'anguilla intorno all'"asta" del microfono cantando "Les homosexuelles", non mi sento esattamente a mio agio.
E' un universo alternativo quello che popola il nuovo club di David Lynch "Silencio", già diventato un crocevia irrinunciabile per la crème degli intellettuali parigini. Ma, visto che questo è il genere di esperienze che ti capita una volta nella vita - considerata la spietata selezione basata su censo e "reputazione" - perché non provare a godersela.
Il primo (e ultimo) applauso lo dedico a coloro che hanno concepito il locale. Varcata la prima soglia, che si affaccia sulla rue Montmartre, inizia una vera e propria discesa negli inferi. Sei piani di scale sotterranee - altro che metropolitana - che ti accompagnano verso il buio e - neanche a dirlo - il silenzio. Colore dominante: il nero. E' come se lo psicoterapeuta ti stesse chiedendo di chiudere gli occhi e di svuotare la mente, nell'attesa di riempirla con nuovi contenuti: ricordi, sogni, incubi. Provare per credere. Poi, arrivati a -6, ci si imbatte nella vera porta d'ingresso. Giusto accanto c'è una campana di vetro dentro cui fluttua un batuffolo di cotone. Ecco, "leggerezza" sarà una delle parole chiave della mia serata. Una volta entrati, sembra che le persone e le cose abbiano la leggerezza dei sogni, dell'immaginazione. Il soffitto è basso, il decoro è minimale, il personale di servizio sembra scomparire nella tappezzeria.
I clienti, tutti rigorosamente vestiti di scuro - anche se in maniera informale, - sono perlopiù giovani, talvolta eccentrici, ma mai volgari. Ti scrutano quasi volessero capire chi sei (magari sei uno famoso o ci assomigli soltanto), perché sei lì, ma soprattutto come hai fatto ad esserci. E anch'io, inconsciamente, ho cominciato a fare lo stesso: ad un certo punto ci è sembrato di vedere Joey Starr. Forse è proprio così: in quel posto vedi quello che vuoi vedere. Tutti sembrano più lenti, più morbidi, più delicati rispetto alla vita vera. Anche loro, come il batuffolo di cotone, fluttuano da una sala all'altra con il loro cocktail nella mano. Parlano poco e rigorosamente sottovoce, si guardano intorno, fumano anche se non potrebbero farlo. Tutto contribuisce a darti la sensazione che ciò che vedi non è tutto. Che ci sono dei misteri da scoprire. Che il bello deve ancora arrivare. Ma non ora. L'interazione tra persone che non si conoscono sembra essere vietata; non c'è traccia del rumore di bicchieri che si toccano per un brindisi; le foto sono vietate. L'impressione è che tutti siano degli attori, e che il locale sia il set di Twin Peaks.
La musica che fa da sottofondo appena arriviamo è interpretata da un pianista in carne ed ossa - accompagnato da una base electro-pop - che però suona dietro le quinte (mah!). Ne conosceremo solo il nome, ma non il volto: quando il sipario si apre, al piano non c'è nessuno. Poi il concerto: Jef Barbara, il giovane autore canadese di cui sopra, ipnotizza la platea con la psichedelia della sua musica elettronica e con l'assurdità dei suoi testi e dei suoi movimenti sulla scena. Pur essendo perfettamente in linea con l'estetica del luogo, la sua performance dura poco più di 40 minuti. Ma non fa niente. Il pubblico apprezza, e tanto. Anche Jef Barbara - come il personaggio che appare nel Silencio del film di Lynch Mulholland Drive - "no has banda". Sul palco c'è solo lui. Finito il concerto, la musica nel locale resta sullo stesso genere - da segnalare un delizioso remix electro-jazz di un pezzo di Alain Souchon, - raffinata e, apparentemente, a tutto volume. Perché apparentemente? Perché - so che è incredibile - il suono sembra essere completamente assorbito dalle mura del locale, e forse anche dalle persone. Non c'è mai la sensazione di caos, di casino, di festa. Tutto resta sospeso. L'effetto è quello della compresenza di musica e silenzio.
(©David Lynch / Silencio/ facebook)
Qual è il rischio che si corre in un posto come questo? Beh, il rischio è che ci si annoi a morte, cosa che nei sogni (belli o brutti che siano) accade raramente. Cioé, mi dispiace dirlo, ma Lynch o non Lynch, crème o non crème, queste persone e questo locale a un certo punto mettono veramente la tristezza addosso. Così, passo in rassegna il piccolo angolo del locale adibito a biblioteca, in cui trovi libri di demonologia e di tarocchi accanto a Le Corbusier, e ricomincio la mia risalita dall'Ade e scappo via dall'incubo lynchiano. Appena torno sulla strada e il vento gelido ricomincia a fischiarmi nelle orecchie e a tagliarmi gli zigomi, un barbone, disperato e infreddolito, mi chiede uno spiccio. Così, a bruciapelo. Dopo aver visto cosa c'è sei piani sotto i suoi piedi ghiacciati, come fai a non pensare che la vita è ingiusta?
Testo di Federico Iarlori