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Siamo tutti francesi

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Dietro l’affermazione di Le Pen c’è la crisi radicale dei concetti di Stato e Nazione. Dopo l’ebbrezza del trionfo di Chirac, questi problemi restano. Anche per gli altri Stati europei.

Il pericolo è scampato. Tale sembra essere stata la reazione della classe dirigente e dell’opinione pubblica francesi alla prima lettura dei risultati del secondo turno delle elezioni presidenziali, che sancivano il trionfo di Jacques Chirac (82%) e la sconfitta di Jean-Marie Le Pen. Sollievo, certo, ma anche soddisfazione, per una mobilitazione – è vero – ampiamente riuscita, e grazie alla quale ci sono i margini politici per costruire un vero progetto di riforma.

Ma i rischi non sono finiti; anzi, non fanno che cominciare. E questo 5 maggio di rassemblement républicain, deve essere concepito come la prima risposta, elettorale, della società francese al terremoto politico del 21 aprile, che aveva visto accedere al secondo turno delle presidenziali il leader del Fronte Nazionale Jean-Marie Le Pen.

I problemi di questa Francia – più o meno latenti da una ventina d’anni, ma esplosi davvero solo due settimane fa – sono essenzialmente due; e riguardano, da un lato, le radici stesse della Nazione e dello Stato e, dall’altro, l’identità della sinistra.

Il voto Le Pen è, in buona misura, un voto identitario, espressione del sentimento di repulsione nei confronti del nuovo: un nuovo imperante (la criminalità che imperversa nelle periferie), oppure non necessariamente materializzatosi (le paranoie della Francia rurale che teme di vedersi, un giorno, anch’essa “invasa” ed urbanizzata). Esso esprime, in termini patologici, una reale incapacità della classe dirigente a vincere la vera sfida del ventunesimo secolo, quella di una società multiculturale che sappia inventare nuove forme di integrazione degli immigrati. L’affermazione di Le Pen – che comunque passa dai 4.800.000 voti del primo turno ai circa 6.000.000 del secondo – denuncia, in effetti, una profonda crisi del concetto di nazione multietnica e, in più, quella dell’idea di sovranità statale post-moderna, fondata sulla delega da parte dello Stato-nazione di buona parte dei suoi poteri ad entità europeizzanti, illegittime ed anti-democratiche.

Dal canto suo, la sinistra soffre proprio dell’incapacità a risolvere la crisi della Nazione “multietnica” e dello Stato post-moderno. Questa incapacità sembra condannarla ad una scelta d’identità, tra “restare” destra e “divenire” destra – causata dal fatto che, alla sua missione di rappresentare l’innovazione ed il progresso, la socialdemocrazia ha, da tempo, drammaticamente abdicato, limitandosi o a farsi paladina della conservazione (dello Stato sociale vecchio stampo), o a promuovere, con le parole, la cosiddetta “globalizzazione dal volto umano” e, nei fatti, la stessa idea liberista che le destre da sempre propugnano come alternativa allo status quo.

Ma l’occasione di ripensarsi come forza di cambiamento, che le è stata data con la sconfitta del 21 aprile, rischia di essere persa con un’eventuale vittoria alle legislative dei prossimi 9 e 16 giugno, resa possibile dal fatto che i quattro milioni di elettori che si sono aggiunti nel corso della mobilitazione del “Fronte repubblicano” possono essere – almeno in parte – “guadagnati” da una sinistra, vera ispiratrice del “sussulto” anti-fascista contro Le Pen. Una vittoria che non farebbe altro che confortare la “coraggiosa” lettura di queste presidenziali – già in voga negli ambienti socialisto-jospiniani – secondo la quale gli inaspettati risultati di questa strana primavera elettorale sarebbero in realtà da ascriversi ad uno sfortunato incidente di percorso, dovuto più che altro ad una poco propizia congiuntura astrale colpevole – tra l’altro – dell’eccessiva frammentazione o della inconcludenza della campagna elettorale.

Ma dietro tali reazioni, più di metodo che di sostanza, si nasconde lo smarrimento delle idee di progresso e di evoluzione, la latitanza dell’approccio riformista, e il decrepito conservatorismo di una classe dirigente socialista che, pur di non pensare che il momento della rivoluzione è venuto, è pronta a “provincializzarsi” e a chiudersi, più di quanto non facciano i seguaci di Le Pen. C’è da dire che il clima politico che si respira in Francia in queste ore – clima da “quiete dopo la tempesta” – non aiuta certo la riflessione e l’autocritica, perché l’antifascismo, per quanto nobile, resta un’idea negativa e non – almeno nel 2002 – propositiva. Resta da capire, all’opinione pubblica francese, quello che nessuno ha voluto dire forte e chiaro: Le Pen ci ha fatto perdere tempo, ci ha fatto credere, ci ha illusi che il vero dibattito politico fosse sul “se” e non sul “come” fare l’Europa, integrare gli immigrati e riformare lo Stato. La politica, per un momento, ritornava “facile”, un insulso sentimento di anacronistica fraternité sembrava riabbracciarci tutti, nell’oblio della complessità e nell’apoteosi di quei troppo gridati “no” all’odio, alla xenofobia e all’intolleranza.

La mobilitazione anti-Le Pen non deve diventare l’alibi politico del non-cambiamento o della deriva sicuritaria. La drammatica crisi dello Stato-nazione e della sinistra francesi restano. E sono concetti doppiamente utili: non solo a spiegare l’affermazione dell’estrema destra e la sconfitta di Jospin, ma anche a stimolare risposte che la sinistra e la società francese tutta dovranno apportare, se non vogliono che quel “fossato” nell’elettorato francese, denunciato da Le Pen e creatosi il 21 aprile, si aggravi e si divarichi al prossimo appuntamento elettorale.

Delle risposte innovative, da cui può dipendere il futuro di ogni società e Stato europei – tutti più o meno coinvolti dal fallimento delle socialdemocrazie e della crisi delle loro fondamenta statali. Delle risposte fatte non solo di retorica e discorsi e dichiarazioni sicuritari, ma di leggi e provvedimenti lungimiranti: quando un Paese è minacciato, come Stato e come Nazione, urge mobilitare tutte le sue forze – politiche e intellettuali – per ripensarne il fondamento. Occorre lanciare un nuovo contratto sociale tra i francesi e gli immigrati, basato su incentivi, diritto di voto e integrazione culturale “reciproca”. E occorre eleggere, a suffragio universale, un’Assemblea costituente chiamata a riscrivere le regole repubblicane nel nuovo contesto venutosi a creare. Un’Assemblea che possa, in corso d’opera, proporre un patto a tutti gli altri Stati europei: l’iscrizione, all’articolo primo della sesta Costituzione francese, dell’inviolabilità dell’appartenenza della Repubblica francese all’Unione europea – in cambio di una equivalente modifica in tutte le carte costituzionali nazionali e della convocazione di un’Assemblea costituente europea che possa disegnare i contorni della futura democrazia europea e fissare i diritti dei suoi cittadini.

Anche se non per forza espressi elettoralmente, la paura dell’altro, la diffidenza per l’eurocrazia di Buroxelles, la crisi delle classi dirigenti sono problemi comuni a tutta l’Europa. Il 21 aprile il caso ha voluto che questi problemi fossero drammaticamente svelati in Francia, proprio come l’11 settembre gli Stati Uniti d’America hanno subito un attacco che in futuro potrebbe capitare in Europa. Per questo, parafrasando ciò che allora proprio il direttore del più autorevole quotidiano francese scrisse in segno di solidarietà, oggi dobbiamo tutti, in Europa, sentirci francesi: perché comune è la sfida della democratizzazione delle istituzioni continentali, come comune è quella dell’integrazione della popolazione immigrata. Osiamo il cambiamento.