Senegal: gli agricoltori contro l’Europa
Published on
Translation by:
silvia rossiI piccoli produttori senegalesi si mobilitano contro gli Accordi di partneriariato economico che saranno negoziati tra l’8 e il 9 dicembre a Lisbona.
In Senegal, è molto semplice: nessuno conosce le abbreviazioni tecniche usate dai funzionari della Commissione Europea. Tranne una: Ape, Accordi di partneriariato economico: tre semplici lettere che catalizzano l’attenzione dei piccoli produttori del Paese. «Cerchiamo di seguire le trattative in corso tra i nostri dirigenti e l’Unione Europea. Se gli accordi non saranno modificati, rischiamo la catastrofe», spiega Sidy Ba, portavoce di un gruppo di produttori di arachidi, tutti situati nella regione di Kaolack, a circa 200 chilomeri a Sud-Est di Dakar, nel bacino arachideo del Senegal.
Una persona su tre vive con meno di un dollaro al giorno
In Senegal il 60% della popolazione vive in campagna. E, stando ai dati della Banca mondiale, una persone su tre sarebbe al di sotto della soglia di povertà, vivendo con meno di un dollaro al giorno. Non serve spiegare perché gli Ape, benchè negoziati lontano dal Senegal, siano in cima ai pensieri di tutti i piccoli produttori.
Con questi accordi, le relazioni commerciali tra l’Unione Europea e i paesi africani, dei Caraibi e del Pacifico (Acp) saranno liberalizzate. Le negoziazioni sono arrivate alla fase finale e la Commissione Europea spera di arrivare alla conclusione definitiva in occasione dell’incontro tra capi di stato africani ed europei che avrà luogo l’8 e 9 dicembre 2007 a Lisbona.
A questo stadio, gli Ape sono ben lontani dal riscuotere l’unanime approvazione dei paesi dell’Africa occidentale. I negoziatori della comunità economica degli stati dell’Africa dell’Ovest (Cedeao) hanno chiesto, ancora ad ottobre, che le trattative proseguano e che la firma degli accordi venga rimandata. La loro paura principale è che i piccoli produttori non beneficino della liberalizzazione del mercato dei prodotti agricoli. Anzi, temono che gli effetti sulla produzione locale siano negativi. E nei villaggi diventerebbe ancora più difficile riuscire a sfamare tutti.
Cotone e arachidi, culture chiave
«La priorità, nella zona di produzione di arachidi, non è tanto aprire le frontiere commerciali, quanto aumentare la capacità di produzione degli agricoltori. Bisogna combattere la povertà che li logora e dare la possibilità di trarre profitto dal loro lavoro», prosegue Sidy Ba. Awa Ndao è madre di tre ragazze e di un figlio handicappato, e nonna di altri cinque bambini. Vive nella comunità rurale di Ndiaffate, sempre nella regione di Kaolack: «Non ce la faccio più, confessa. Ce la metto tutta per continuare a lavorare e sopravvivere. Ma non ne ho più la forza». Con un pasto, al massimo due, al giorno, composti soprattutto da riso, «abbiamo fame, la carne è diventata sempre più rara».
Per il momento, l’organizzazione della produzione agricola senegalese non permette ai coltivatori di lottare contro la carestia. Tutto ruota intorno all’onnipresenza di grandi intermediari che acquistano i raccolti direttamente dai piccoli produttori per commercializzarli nei grandi mercati e talvolta esportarli.
(Photo: José Lavezzi/ ActionAid)
«Quando ci va bene mangiamo una volta al giorno»
«Non abbiamo abbastanza sementi di buona qualità: per comprarne altri e il fertilizzante necessario dobbiamo indebitarci. Quando arriva un periodo di siccità, siamo costretti a vendere il bestiame e il nostro raccolto a un prezzo bassissimo, e di conseguenza non siamo più in grado di provvedere ai nostri bisogni», spiega Adam Ibrahim Ndao, 50 anni, produttore di arachidi nella comunità rurale di Ndiaffate.
La situazione alimentare è ancora più difficile nella regione di Velingara, un bacino cotonifero che si trova nel Sud del Paese, a 700 chilometri da Dakar, alla frontiera tra Gambia e Guinea Bissau. Una carestia ha colpito la zona quest’anno, a causa delle inondazioni che hanno distrutto la maggior parte dei raccolti.
«A volte penso che siamo condannati a soffrire la fame per sempre. Mio marito ha 80 anni ed è troppo vecchio per lavorare i nostri campi di miglio, arachidi e cotone. Ora è nostro figlio di 11 anni che coltiva il nostro mezzo ettaro di terra», racconta Adama Sabally, 60 anni, madre di tre figli nel villaggio di Pakour, nella regione di Velingara. «Quando ci va bene mangiamo una volta al giorno, ma quest’anno, con le inondazioni che hanno distrutto i nostri raccolti, capita sempre più spesso di passare l’intera giornata a digiuno», prosegue.
Assicurare l’autonomia alimentare
«Data la situazione di Velingara, la priorità dei piccoli agricoltori è raggrupparsi in cooperative per poter investire in fertilizzanti, trattori e riserve di sementi con cui affrontare una carestia», spiega Abdoulaye Mballo, fondatore di ‘Radio Bantaare’ e corrispondente della Radio Televisione Senegalese (Rts).
«Urge che il Senegal metta in atto delle politiche di protezione e di sviluppo dei prodotti agricoli nazionali per combattere la fame e rinforzare la produttività della sua agricoltura», spiega Faty Kane, la giovane coordinatrce nazionale della campagna senegalese di lotta contro la fame Kaa KonKo Kele.
«Ad esempio, è il caso dell’arachide, base dell’alimentazione locale e necessaria per il nutrimento del bestiame. Svilupparne la produzione significherebbe smettere di importare da Brasile ed Europa prodotti come l’olio di soia», aggiunge.
A pochi giorni dall’inizio del summit tra Unione Europea e Africa a Lisbona, il messaggio dei piccoli produttori senegalesi è chiaro: vogliono prendere esempio dall’Europa e creare una politica agricola locale comune. Ambiscono a diventare autosufficienti e a proteggere la produzione di generi agricoli essenziali alla loro economia, come le arachidi o il cotone.
Da tempo diverse organizzazioni si mobilitano per portare avanti in tutta l’Africa occidentale campagne di informazione sugli Ape. Basteranno questi sforzi per far sentire la loro voce?
Foto nel testo: Awa Ndao, Adam Ibrahim Ndao, Velingara regione, Abdoulaye Mballo (José Lavezzi/ ActionAid)
Translated from Au Sénégal, les agriculteurs contre l’Europe