Scegli: crescita o sviluppo?
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Crescita e sviluppo sono due parole ricorrenti nel vocabolario contemporaneo comune, specialmente in quello economico. Eppure i due termini, che al primo sguardo potrebbero apparire espressione del medesimo concetto, portano in sé una distinzione non di poco conto.
Cosa significa crescita
Sostanzialmente, aprendo un qualsiasi dizionario alla voce crescita, ci verrà detto: «aumento di dimensioni o aumento in generale». Da una semplice definizione terminologica come questa, è facile ricavare anche il significato del corrispettivo termine prettamente economico. La crescita economica è un concetto più o meno noto a tutti, entrato di prepotenza nell'immaginario collettivo a partire dal secolo scorso, di fronte alle nuove sfide del capitalismo moderno, ed è oggi proposto costantemente da attori politici e autorità monetarie. Essa indica un aumento congiunto del livello di variabili macroeconomiche, quali produzione di merci, consumi e ricchezza.
Quando si parla di crescita economica manca quindi il riferimento a fenomeni qualitativi che interessano la società nel suo complesso, come ad esempio il livello di istruzione di una popolazione o la qualità del servizio sanitario di cui questa può usufruire. Ciò accade perché comunemente facciamo nostro l'assioma per cui un aumento della ricchezza significa anche un aumento di benessere. Talvolta le categorie a priori sono giustificabili e possono rappresentare una pura connessione logica evidente tra noi e il mondo che ci circonda. Quindi state tranquilli: se in termini economici continuate a pensare che crescita e sviluppo siano sinonimi, non state commettendo un peccato e anzi non avete tutti i torti.
Il problema è che l'uguaglianza tra i concetti di crescita e sviluppo potrebbe anche sussistere, ma in un mondo che semplicemente non esiste. Parliamo di un mondo immaginario in cui la ripartizione dei redditi tende più o meno ad un'equa distribuzione, la produzione di beni e servizi non provoca la costante e irreversibile distruzione dell'ecosistema, il livello di fondamentali servizi di welfare è quantomeno buono e la cultura riceve il peso che merita. Se invece facciamo crescita senza sviluppo, e quindi senza utilizzare nel modo giusto le opportunità rappresentate da una macroeconomia favorevole, allora crescita e sviluppo diventano due concetti che vivono su pianeti lontani anni luce. Ed è proprio quello che stiamo facendo da decenni.
I media e le istituzioni sottolineano infatti la rilevanza della variabile costituita dalla crescita economica, mostrandoci grafici il più delle volte incomprensibili e argomentando la necessità di dover continuare a crescere, spesso appellandosi allo spirito di sacrificio del popolo. Per tali motivi si può dire che il significato della parola "sviluppo" per il mondo occidentale sia diventato una corsa verso la crescita, che alla fine diventa un vero e proprio stile di vita. Ed è così che lo sviluppo della società viene ridotto a dei meri indici economici come il prodotto interno lordo, incredibilmente affidabili sul piano matematico, ma in fin dei conti estremamente limitati nel rappresentare la società in tutti i suoi aspetti.
I modelli di crescita capitalistica
Esistono dei modelli precisi per cui, secondo la storia del capitalismo moderno, è possibile ottenere crescita e sviluppo. Più precisamente, ce ne sono due: quello che prevede un sistema economico protezionista oppure quello rappresentato dal liberismo.
Il primo affonda le sue radici nella vecchia teoria del mercantilismo ed è stato perseguito da regimi autoritari come il fascismo e il nazismo, ma anche da paesi democratici, e parte dal presupposto che un paese può operare in un sistema economico internazionale aperto solo se possiede un sistema industriale e imprenditoriale competitivo rispetto all'estero. Se non ce l'ha, ciò che deve fare è attuare una politica restrittiva nei confronti della concorrenza esterna, limitando pesantemente le importazioni solo alle tecnologie e alle risorse necessarie, per poi far sviluppare le aziende nazionali al riparo dalla maggiore competitività di quelle estere. Quando le prime saranno abbastanza forti da poter agire anche in ambito internazionale, allora si potrà decidere di allentare i lacci che limitano le importazioni e l'afflusso di capitali, ma il protezionismo può essere anche una scelta adottata ad intermittenza o per lunghissimi periodi.
Questa via è stata però criticata dalla maggior parte degli economisti classici, anche perché in tal caso il consumatore interno sarebbe esposto a prezzi maggiorati rispetto a quelli di cui potrebbe godere se il mercato fosse aperto. In altri termini, i profitti degli imprenditori nazionali crescerebbero più che proporzionalmente rispetto alla perdita di benessere generale sofferta dalla popolazione. Questo modello, perciò, è stato letteralmente surclassato dalla teoria, ormai mainstream, del liberismo, al punto che oggi quei paesi favorevoli ad un innalzamento anche non eccessivo delle barriere protezionistiche sono immediatamente bollati come retrogradi e talvolta addirittura pericolosi.
Senza troppi giri di parole, attualmente è il liberismo, nella sua variante neo-liberista, ad essere considerato l'unica strada percorribile da chi ha intenzione di "svilupparsi". Questo modello, sponsorizzato dalle istituzioni economiche internazionali, prevede l'esatto contrario del protezionismo, affermando con vigorosità la logica del mercato internazionale, la cui forza risiederebbe nel principio apparentemente meritocratico per cui l'incontro della domanda e dell'offerta avrebbe sempre la capacità di allocare efficacemente le risorse.
A tutto ciò si accompagna l'idea per cui la libera concorrenza favorirebbe in tutto e per tutto l'innovazione tecnica, cosicché la privatizzazione e l'esclusione degli interventi dello stato nell'economia si presentano come i suoi postulati inevitabili. Particolarmente importanti, se non essenziali, sono tra l'altro diventati i capitali finanziari: gli economisti neoliberisti considerano infatti gli investimenti esteri come una manna scesa dal cielo, pronta a trasferire a paesi arretrati tecnologie ed altre esternalità positive per l'economia locale. Non sembrerebbe esserci quindi scampo all'apertura verso l'esterno, ma purtroppo anche la teoria neoliberista, che fa della crescita senza se e senza ma il suo obiettivo primario, presenta delle lacune difficilmente trascurabili. Queste lacune sono proprio le armi utilizzate dalle più recenti teorie economiche alternative per contrastare il dominio incontrastato della dottrina neoliberista.
Cosa significa sviluppo
Lo sviluppo economico è un concetto ben più complesso della crescita economica. Per crescere economicamente nell'ambito dei modelli dei modelli di crescita che sono stati presentati si può, ad esempio, stimolare l'imprenditorialità riducendo la quota d'imposta sulle aziende o incentivare la spesa al consumo con degli appositi sussidi; oppure si può puntare sul progresso tecnologico, aumentando la produttività del lavoro. Ma, al di là del come venga raggiunto, qui vale solo la pena considerare che l'obiettivo della crescita può essere valutato e perseguito in termini di politica economica.
Svilupparsi economicamente, invece, implica e presuppone un impegno da parte della politica molto più variegato, perché richiede il più delle volte la modifica delle caratteristiche di base del sistema economico. Per non deforestare e inquinare, per esempio, è necessario che il modo di produzione di un sistema economico operi in una certa maniera. Per questo motivo, il concetto di sviluppo fa riferimento soprattutto ad aspetti più qualitativi dell'economia, considerando indicatori come i tassi di alfabetizzazione o della speranza di vita.
In tempi recenti anche le organizzazioni internazionali, sulla base degli sviluppi della teoria economica e dei problemi posti dall'economia contemporanea, hanno fatto proprio il concetto di sviluppo economico, separandolo da quello della crescita: per valutare la qualità della vita all'interno dei paesi membri, l'ONU utilizza ad esempio il cosiddetto indice di sviluppo umano, il quale misura il grado di accesso alla conoscenza, la speranza di vita alla nascita e il reddito lordo nazionale pro capite. Negli ultimi tempi, particolarmente rilevante e conosciuta è diventata l'espressione "sviluppo sostenibile", introdotta inizialmente dalla commissione mondiale sull'ambiente e sullo sviluppo, quando nel 1987 stilò il rapporto Brunthland, in cui si affermava testualmente che: «Lo sviluppo sostenibile è uno sviluppo che soddisfi i bisogni del presente senza compromettere la possibilità delle generazioni future di soddisfare i propri».
Nell'ultimo trentennio la teoria economica alternativa è andata oltre il concetto di crescita tradizionale ed ha addirittura superato l'idea stessa di crescita economica, utilizzando provocatoriamente il concetto di decrescita felice come slogan per mettere in dubbio il modello teorico dominante, basato sulla produzione continua di merci e sul loro consumo di massa, e proponendo al contempo un nuovo tipo di società, libera dallo sfruttamento di risorse non rinnovabili, causa di limiti e di questi tempi anche di conflitti pericolosissimi.
I fautori di questa teoria, che spesso indicano in Latouche uno dei padri fondatori, mettono in correlazione la necessità di cambiamenti prettamente economici basati sul rispetto dell'ambiente, con altri di natura politica, come ad esempio l'idea dell'autogoverno dei territori. Idee e correnti che introducono nel linguaggio economico parole come "felicità" finiscono necessariamente per incrinare i modelli economici classici e neoliberisti. Tuttavia, la rilevanza dei problemi che il mondo sta vivendo e l'urgenza di trovare una soluzione per essi, sta costringendo anche i più scettici a considerare seriamente queste nuove teorie: il premio Nobel per l'economia vinto nel 1998 da Amartya Sen, uno degli economisti più rispettati per i suoi studi nel campo dell'economia alternativa, ne è un segnale inequivocabile.