Sarajevo: vent'anni di pace
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Gli accordi di Dayton festeggiano il loro anniversario, ma "le fatiche delle pianure" non sono superate e la capitale bosniaca paga ancora il prezzo di quel compromesso. Vent'anni di pace è il racconto per immagini di una città che prova a costruire un futuro, tra mille difficoltà.
Sarajevo è l’attentato all’Arciduca, l’abbiamo letto tutti sui libri di scuola. È la guerra che inonda gli schermi dei nostri salotti nei primi anni ’90, nessuno lo dimentica. Quel nome però è molto altro. Storia di domini, ottomano e austroungarico, poi la Jugoslavia di Tito. Storia di culture e religioni che qui realizzano l’utopia della convivenza. Cattolici, ortodossi, musulmani, ebrei sefarditi nei secoli edificano la Gerusalemme d’Europa.
Il 3 marzo 1992 la Bosnia ed Erzegovina proclama la propria indipendenza dalla Jugoslavia. Il 5 aprile scoppiano i primi combattimenti tra serbi e musulmani bosniaci. Da quel momento il Paese conosce una guerra complessa, alimentata anche dalla frammentazione della realtà bosniaca.
Sono passati vent’anni dalla sigla posta sugli accordi di Dayton: era il dicembre 1995. La pace mise la parola fine all’assedio più lungo della storia contemporanea, ma lasciò l’intera Bosnia prigioniera di uno tra i peggiori compromessi che le fatiche delle pianure abbiano dovuto accollarsi. Oggi, l’eredità di quegli accordi che più pesa sulla salute dell’intero stato è una macchina amministrativo-burocratica elefantiaca che, oltretutto, premia la divisione sancita in ragione della situazione militare. Prima del conflitto questa terra non conosceva separazioni, mentre ora coesistono due entità: la federazione croato-musulmana e la repubblica serba. Come se questo non bastasse, corruzione e disoccupazione affliggono il Paese e, a ben guardare, l’unico tentativo di sfuggire alla palude sembra essere il cammino intrapreso per poter entrare nell’Unione Europea. Alla fine dell’anno, infatti, la Bosnia presenterà la propria candidatura, proseguendo così il percorso avviato con l’Accordo di stabilizzazione e associazione, entrato in vigore il primo giugno scorso. Questo passo riuscirà a metter in un angolo la politica nazionalista che dagli anni '90 si batte per una pretestuosa divisione? Oppure, diventerà esso stesso uno strumento per rinfocolare gli attriti?
La Bosnia Erzegovina però non è solo la sua classe dirigente. È anche la sua nazionale di calcio che, qualificandosi all’ultimo campionato mondiale, ha affollato le strade di abbracci e urla di gioia. È il Festival del Film di Sarajevo, che ogni anno richiama cineasti e cinefili da tutto il mondo; è il Festival del Jazz, che nulla ha da invidiare ai più blasonati.
A Sarajevo oggi non si può dire che la guerra non abbia lasciato cicatrici e strascichi, ma i suoi cittadini provano, fra mille difficoltà, a ricostruire una convivenza pacifica e a ridare dignità a luoghi simbolo della loro cultura, quella che vive.
Alcune immagini del progetto:
Due simboli iconografici della Sarajevo cinta d’assedio. L’Holiday Inn, costruito per le Olimpiadi del 1984, ha ospitato per buona parte del conflitto numerose agenzie di stampa internazionali. Di fronte, a pochi passi, il Parlamento bruciava. Oggi, Holiday Inn e Parlamento galleggiano nel silenzio. Il primo di cattivi affari, il secondo non è certo da meno.
Ai piedi dei palazzi titini, fra i buchi dei proiettili si fa largo un sentimento comune all’intera città: non dimenticare il massacro che a pochi chilometri da qui si è consumato come il peggior incubo annunciato. Sono oltre 8.000 gli uomini che l’11 luglio 1995 hanno perso la vita in nome di una ferrea logica che affonda le radici nel nazionalismo e nella realpolitik più biechi. A vent’anni dal massacro, molte famiglie restano ancora senza nemmeno le spoglie dei propri cari e con una giustizia vacillante anche sul piano internazionale. Il veto russo alla risoluzione del Consiglio di Sicurezza ONU ha messo in un angolo la definizione di “genocidio”, proprio pochi giorni dopo la pubblicazione di un'inchiesta dell'Observer che denuncia Stati Uniti, Francia e Gran Bretagna quali silenti spettatori di fatti a loro noti.
Un gruppo di ragazze musulmane in visita al luogo di culto cattolico. Nei paesi balcanici la religione, oltre a riflettere quello in cui si crede, dipinge in special modo quello che si è, conferendo dunque un’identità sociale e culturale che prescinde dalla sua osservanza o meno.
La Biblioteca nazionale ed universitaria della Bosnia ed Erzegovina è tornata al suo splendore lo scorso anno. Era la notte del 25 agosto 1992 e a bruciare per tre giorni sotto il tiro dei cecchini c’era l’esistenza stessa di un popolo, depredato non solo di volumi d’inestimabile valore culturale ma anche della propria identità.