Saïd André Remli: «I secondini hanno tentato di “suicidarmi” almeno tre volte»
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Antonella SelisVent’anni passati nelle prigioni francesi, a proteggersi dagli gli altri detenuti e dalla violenza delle guardie: è ciò che Saïd André Remli racconta nel suo libro "Je ne souhaite cela à personne" (Non lo auguro a nessuno), dalle notti in bianco alla solidarietà, passando per le vittorie giuridiche contro l'arretratezza del sistema carcerario francese.
Incontro con un uomo turbato che oggi realizza documentari e si occupa di reinserimento.
«Arcueil-Cachan, prestare attenzione scendendo dal treno». Il RER B riparte e io riconosco il viso tondo che appare sulla copertina di "Je ne souhaite cela à personne", una straziante autobiografia firmata da Saïd André Remli (edizioni du Seuil, gennaio 2010, non tradotto in Italia). Chi potrebbe mai immaginare, vedendo quel faccino, che questo papà-chioccia di 52 anni, padre di tre figli, viene da vent’anni passati dietro le sbarre? Da Saïd André Remli anche le scuse più piatte assumono un tono tutto particolare: «Mi dispiace non averti risposto prima, sonnecchiavo… Riesco a chiudere gli occhi solo di giorno, per intervalli di 20 minuti … abitudini da carcerato».
Fame di diritto dietro le sbarre
Il fatto è che il nostro uomo non è stato sempre un angelo. All’alba dei suoi quindici anni si ritrova per la strada, dopo un soggiorno di un mese in prigione. Ai piccoli furtarelli alla "Robin Hood" si succedono rapine a mano armata, soppiantate da più lucrativi giochi di potere al fianco dei padroni della notte. Un bel giorno del 1984, il Remli tanto ricercato viene condannato a cinque anni di prigione con un capo d’accusa del tutto assurdo: prossenetismo. Viene inviato nella prigione di Montluc dalla quale tenta di evadere. Impresa che va a finire male e che si conclude con la morte di uno dei sorveglianti. Remli rientra in cella e questa volta per una buona ragione. Condannato al carcere perpetuo uscirà il primo giugno 2004, beneficiando di un regime di libertà condizionale che verrà revocato definitivamente il 31 dicembre 2009.
I ripetuti soggiorni presso vari istituti penitenziari costituiranno il punto di partenza del suo impegno a favore del reinserimento. In prigione, denunciava le condizioni di detenzione – spesso esecrabili – degli istituti francesi, avvalendosi del diritto internazionale e riuscendo a farne giurisprudenza in vari ambiti. Una volta fuori continua la sua lotta senza atteggiarsi a pentito. Dopo essere stato vice presidente di Ban Public, un sito internet di riferimento sulla condizione carceraria in Europa, Saïd ha scelto di agire concretamente creando un’impresa di pulizie industriale che facilita il reinserimento degli ex detenuti di Arcueil.
Dalla condanna breve al suicidio: l’ingranaggio delle prigioni
È al bar da «Coco» che riesco ad avere maggiori dettagli: «Per chi arriva da casa di mamma e papà la carcerazione è qualcosa di infernale. Nei due o tre mesi che seguono al loro arrivo, molti detenuti condannati a piccole pene mettono fine ai loro giorni. Altri si difendono, usano il coltello e vengono così condannati a pene più pesanti». Dalla padella alla brace, ecco la pericolosa conseguenza di questa situazione: «Lo choc è troppo brutale: i detenuti non riescono a venirne fuori. La violenza “dentro” è potente e rapida. In prigione tutto può diventare un’arma, persino lo zucchero… Per gestire questa gente, bisogna mettere dei guardiani ancora più violenti, da qualche parte è ammesso». Violenza che va di pari passo con la crudeltà. L’unità d’isolamento, contestata dal diritto internazionale, ne è un triste esempio: «Nella cella di isolamento i secondini si alternano per impedirti di dormire… Di norma un detenuto può restarci al massimo 45 giorni di fila. Io ne conosco uno che ci ha vissuto 5 anni: lo portavano fuori per una giornata e poi lo risbattevano in cella». Da tutto ciò si traggono le amare conclusioni sulla politica carceraria francese: «Molte persone non concepiscono la politica attuata in Francia, sia a livello carcerario che giudiziario», mi dice quando gli confido che mia madre è un giudice. «Non per niente di tutti i membri del Consiglio d'Europa la Francia si è classificata penultima sul piano dei diritti umani (vedi il rapporto di M.Alvaros Gil-Robles sul sistema penitenziario francese del 2006) e ultima per il tasso di suicidi in prigione. E le persone non si suicidano perché stanno bene».
Derive carcerarie e il sogno di una «prigione aperta»
«Negli ultimi otto anni della mia vita in prigione, ho assistito al continuo degrado della vita carceraria. Attualmente l’80% dei detenuti non ha motivo di stare in prigione, alcuni dipendono dagli psichiatri, altri sono semplicemente dei clandestini. Li si incarcera solo per rispondere a un’esigenza di sicurezza. Nel 2004, poco dopo la mia uscita, un detenuto di Saint Maur che conoscevo, condannato per cannibalismo, ha mangiato il cervello di un suo compagno di detenzione». Un evento incredibile che nemmeno i più spaventosi film d’orrore oserebbero rappresentare. «La prigione non è più in grado di garantire la sicurezza di coloro che ci vivono, siano essi detenuti che personale carcerario» conclude Saïd André Remli. La repressione, vista da dentro, non funziona. E a ragione: «Quando parlo di suicidi, in certi casi si tratta di fatto di omicidi. E tutto il sistema giudiziario copre tali episodi. Io sento il dovere di parlarne: i secondini hanno cercato di “suicidarmi” almeno tre volte. Si dice che questi progetti sperimentali si siano moltiplicati in Francia nel corso degli ultimi anni, ma io non ci credo!».
L’istituto penitenziario ideale per Saïd sembra andare nella direzione delle ultime dichiarazioni del segretario di stato alla giustizia francese, Jean-Marie Bockel che si augura di istituire un 10% di "prigioni aperte" entro il 2020. Una scelta già in vigore nei paesi scandinavi, in Svizzera e in altri paesi europei. Resta da vedere se si tratta dell’ennesimo annuncio francese ad effetto o piuttosto di un’iniziativa rivoluzionaria.
Je ne souhaite cela à personne, Saïd André Remli, 2010, edizioni du Seuil
Foto: Saïd André Remli di Hélène Bienvenu; Jailhouse rock: DianthusMoon/flickr; Prigione: 4PIZON/flickr
Translated from Saïd André Remli : « Les matons ont essayé de "me suicider" au moins trois fois »