Roma riparte dal pubblico
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“il termine utopia è la maniera più comoda per liquidare quello che non si ha voglia, capacità o coraggio di fare” (A. Olivetti)
Alcuni lo chiamano quartiere, altri territorio, quadrante, zona. La disputa sul sostantivo giusto da usare tuttavia non risulta utile. Interessante è invece capire cosa può fare un cittadino nei confronti della propria città e delle strade dove cammina quotidianamente. Come può relazionarsi il singolo con la società e le sue istituzioni.
Ci sentiamo ancora cittadini? O siamo stati privati di questa realtà, concependoci ormai come lottatori solitari? Viviamo nella massa, ma non siamo con la massa. L’ideologia dominante purtroppo non solo ci mette in difficoltà concrete, ma ci spinge alla solitudine, all’impossibilità di socializzare veramente, di partecipare. Ma il cittadino, per natura, è un animale sociale. Anzi l’uomo tout court è animale sociale, ζῷον πολιτικόν.
Ripartire dalla partecipazione. Con i suoi limiti, certo, ma solo questa ci può far rinascere come cittadini nel vero senso del termine. Attivi, coinvolti, engagés e, perché no, anche enragés. Siamo, volenti o nolenti, vittime del pensiero unico per cui tutto si vende e si compra, per il quale il bene pubblico non esiste, se non come ottimo investimento per privati. L’università, le imprese comunali e statali non le sentiamo più nostre. Unica possibilità ammessa, venderle per salvarci dal debito che grava su di noi, sulle participate, sui municipi.
All’idea secondo la quale il pubblico deve necessariamente perire a favore del privato, perfetto poi non si sa perché, si associa quella che Christophe Mincke chiama “idéologie mobilitare” (La revue “Politique” n. 64, 2010). Oggi siamo qua, domani chissà. Non ci interessiamo più della realtà locale perché siamo continuamente precari geograficamente. Bello a dirsi, complesso a farsi. Perché se viaggiare per studio, lavoro, diletto o cultura è fantastico, non essere coscienti del valore di ciò che ci circonda è deleterio e viene usato come arma contro di noi. Detto in parole povere: ma cosa ci importa dell’imminente privatizzazione dell’ATAC o dell’AMA se tanto il prossimo anno andremo a Bruxelles?
In realtà ci deve interessare e molto, perché la flessibilità esiste e non è solo un male, però l’espropriazione di ciò che è pubblico, cioé di tutti, si compie dal Perù alla Francia. Troveremo là il disastro che credevamo di aver lasciato a casa.
Quest’idea secondo la quale non ha più senso lottare perché tanto l’unica possibilità è vendere o vendersi al migliore offerente non rappresenta la morte della politica, come dicono alcuni, quanto piuttosto la scelta politica di sottomettersi all’economia e di perdere controllo e sovranità. Perché se oggi la Grecia vende i propri beni ad aziende private è perché lo Stato lo permette. Certo, c’è il debito mi direte voi. Sì, ma c’era anche qualche anno fa in quasi tutte le principali banche private europee, però quelle sono state salvate con soldi pubblici (UK in primis) e senza tanti problemi. Allora ditemi, perché la Deutsche Bank sì e l’ATAC no? Certo è più complicato di così, si tratta di competenze specifiche e quant'altro, ma l'importante è cogliere il senso generale di certe decisioni.
Però qui entriamo in gioco noi. Vogliamo salvare i beni pubblici o no? Partecipiamo al dibattito o no?
Siamo convinti che la privatizzazione sia l’unica via d’uscita. Ci hanno detto che le cose stanno così e ci abbiamo creduto. Però dovremmo sapere che se dovessimo coprire autonomamente tutti i costi di sanità, istruzione, nettezza urbana e mobilità, non ci sarebbe stipendio che tiene. Ad esempio l’ATAC di Roma riceve il 30% dei suoi introiti dalla vendita dei biglietti. Se fosse privatizzata il biglietto costerebbe quasi 5 euro, solo per raggiungere il pareggio di bilancio. Per non dire come molte zone della città non sarebbero più coperte perché non conviene, non crea utili.
Ecco che muore il cittadino è subentra l’uomo nuovo. La monade che caratterizza la nostra società atomizzata. Il frequentatore di social isolato nella sua presunta libertà.
Allora vi dico una cosa fuori moda: rivoglio la sinistra. E che non si dica che le ideologie sono morte, ma piuttosto che ormai ne esiste una sola ovunque.
Rivoglio politici con una visione di Stato paragonabile a quella di Mitterand. Rivoglio cittadini che rispettino il pubblico e amino il proprio territorio. Cittadini che abbiano progetti e sogni più grandi della piccola sistemazione in azienda. Rivoglio le piazza piene alle feste popolari, l’inclusione sociale di e per tutti. Rivoglio persone che non giustificano il sistema prevaricatore e ingiusto nel quale viviamo solo perché “è così e non si può far nulla”. Rivoglio giornalisti che non scrivano tutti i giorni di grandi imprenditori, della favola del libero mercato o della vita privata delle grandi star, ma che facciano inchiesta, che ci raccontino le vite di chi lotta davvero. Che si parli di Maxima Acuna e non di Flavio Briatore, dell’economia reale e non delle previsioni della Borsa di Hong Kong, di Villa Fiorelli e non di Hyde Park.