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Ritorno da Perugia: il giornalismo 2.0 o l’era degli sguardi chini

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Napoli

Sul treno che porta a casa da Perugia, ripercorro le giornate del festival con soddisfazione. Un’occasione simile è una fonte di ispirazione, la possibilità di avere a portata di mano l’esperienza, la personalità, gli strumenti tecnici di chi in questo mestiere ci vive da tempo e riesce a farne novità nonostante la concorrenza.

Malgrado gli scenari oscuri, il Festival si è confermato un laboratorio di spunti, necessari per trovare motivazioni nuove e continuare a sperare di fare, nonostante tutto, il giornalista. 

(cc) pagina facebook International Journalism Festival (foto di © Max Brod)

Futuro in progress

La settima edizione dell’International Journalism Festival a Perugia si è conclusa domenica 28 aprile, portandosi dietro una folata di commenti, critiche e nuove idee. “È stata un’edizione orientata al giornalismo come scienza”, ha dichiarato la fondatrice Arianna Ciccone, in una recente intervista, “attenta sì al contenuto ma soprattutto alla tecnica”. Il futuro è stato il padrone incontrastato della scena: una parola che trasuda freschezza e rivoluzione, ma che, pronunciata di continuo, corre il rischio di diventare vecchia e stantia, priva della concretezza pratica che si merita.

Che sia del giornalismo in generale, dei mezzi attraverso il quale farlo o dei giovani, non importa. In ogni sala, l’interrogativo che risuonava tra le cuffie, mie e quelle del mio vicino spagnolo, era: quali scenari si apriranno da qui agli anni a venire? Le risposte sono termini divenuti ormai familiari: Twitter, Facebook, Storyful, BuzzFeed, Demotix. Superata la diffidenza (anacronistica per una della mia età) a concepire tali strumenti come il luogo non fisico della nuova informazione, dopo aver ascoltato workshop e panel, ne intuisco la loro portata innovatrice. O almeno l’intento è quello di provarci.

Addio alle redazioni

Ci si chiede quale sarà la strada del passaggio dalla carta stampata al digitale, in un momento in cui l’era dei fogli formato gigante, quelli che ti sporcano le dita di inchiostro, che fai fatica a gestire quando sei in metropolitana, sembra sia giunta davvero alla fine. Ci si danna a trovare una risposta. Con una flemma tutta made in Britain, ci prova Emily Bell. Ex direttore dei contenuti digitali per il Guardian, Bell sembra una donna dalla personalità forte, col fegato di ferro inzuppato di cemento. Purtroppo ha una brutta notizia per i nostalgici del giornalismo vecchio stile, quelli che da grandi sognavano un posto in redazione, tra scartoffie e scrivanie: le redazioni spariranno. Almeno questa sarà la tendenza generale. E l’unica alternativa all’estinzione sembra essere quella di aprire nuovi spazi alla specializzazione. Nel tempo dell’individualizzazione, del dialogo solitario con se stessi e le proprie conoscenze digitali, la soluzione è essere unici, con capacità fuori dal comune. E saperle coltivare.

Emily Bell

Harper Reed ne è l’esempio. Lui non è un giornalista, ma in qualche maniera ha a che fare con la comunicazione, e ci sa fare. CTO (Chief Technology Officer) della campagna presidenziale di Barack Obama, entusiasma il pubblico con una presentazione travolgente di sé e del suo lavoro. La sua capacità fuori dal comune è quella di essere un hacker. Sembrerà strano, ma qualcuno si è accorto delle sue eccellenti doti informatiche e comunicative (a partire dall’aspetto, barba rossa folta e occhialoni neri che gli coprono tre quarti di faccia). E quel qualcuno apparteneva all’entourage comunicazione del Presidente USA. E il gioco è fatto.

All’ordine delle giornate del Festival, c’erano anche i nomi di Mathew Ingram, che ha consigliato al buon vecchio organo di stampa tradizionale come interagire con i new media, Zucconi, Travaglio e Yoani Sanchez, ferocemente contestata durante una delle sue prime uscite internazionali. E ancora il giornalismo d’inchiesta, di guerra, la Primavera araba, ancora d’attualità nonostante fosse stata la protagonista della scorsa edizione, e la libertà di stampa nei paesi dell’Europa tra i contenuti. Il Data Journalism, i Social media, e un felice ritorno del “longform” per quanto riguarda gli strumenti tecnici.

Harper Reed @International Journalism Festival (foto flickr)

Non di soli cinguettii vive il giornalismo

Eppure qualcosa in questo cinguettio telematico corredato di hashtag non torna. Il giornalista racconta, ma non solo. Il suo primo compito è osservare. Ma come può conciliare il dovere di cronaca con l’imperativo categorico e, ormai quasi morale, di twittare in ogni momento per essere al passo con gli altri? Da una parte e dall’altra della fila, in attesa che arrivi l’ospite, e anche quando è sul palco a parlare, almeno la metà delle persone in sala sono con la testa china, intenti a correre la gara del “twitto prima io”. Il clic delle tastiere risuona che è un piacere, intervallato dagli scivolamenti sugli schermi touch-screen. Non si corre forse il rischio di perdere qualcosa?

Se anche qualcuno in una delle lunghe file di attesa, o per strada, si è lasciato sfuggire che questa edizione è stata troppo autoreferenziale nei personaggi, e troppo di parte nei contenuti, l’International Journalism Festival di Perugia resta un’esperienza da non perdere, soprattutto per i giornalisti più giovani. Si, è vero, avendo visto come protagonisti giornalisti provenienti per la maggior parte solo da Italia, Regno Unito e Usa, dimenticando un po’ tutti gli altri, è legittimo chiedersi se si tratti di un festival che davvero coinvolga tutte le voci della stampa mondiale. Ed effettivamente un contraddittorio tra i diversi modi di “fare giornalismo”, per non dire tra diverse tendenze politiche giornalistiche, non è stato sempre garantito. Tuttavia, per quelli che ancora sanno trovare il buono nel sentir parlare delle grandi firme, non ancora invischiati nelle logiche elementari del “sono più bravo io”, il festival si è rivelato come sempre un’occasione per cui vale la pena prendere un treno e trascorrere quattro giorni a Perugia. Non solo per cercare di carpire i trucchi del mestiere alle vecchie e nuove leve del giornalismo, ma soprattutto per trovare una strategia di sopravvivenza nell’era della rivoluzione digitale.

di Federica Signoriello