Riflessioni intorno al caffè takeaway: il cartone "bollente" che ha tutto di professionalmente sexy
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IL SECOLO DELLE NON-TAZZE.
Run Forest Run!
Run Coffee Run!
Il caffè versato dentro un bicchiere di carta che non si stropiccia, che non si buca e che non si bagna svela tutta la sua forza sopra la mia scrivania da lavoro. C'è qualche cosa di sorprendente che caratterizza questi sensuali contenitori, che fanno da accessorio sopra la superficie dove svolgiamo i nostri progetti.
Non so voi, ma anche quando termino di consumare la forma del mio caffè, non riesco a buttare immediatamente il bicchiere di carta, a vederlo come spazzattura. E lo tengo sopra la mia scrivania, macchiato d'amore di caffè al suo interno, per ore e ore. E' il mondo invisibile del bicchiere di carta che stringe intorno a sé i cerchi liquidi sovrapposti del caffé.
Pensateci. Guardiamo veramente il caffé takeaway? E se ci capita di aprire il coperchio di plastica lo facciamo unicamente per controllare se è veramente caffè che ci hanno versato e per annusarlo rapidamente. In seguito rimettiamo il coperchio fino ad ottenere un effetto ermetico, di incastro felino fra il bordo del bicchiere e la scanalatura del coperchio: un coraggioso scambio di identità fra due bordi che si tratteggiano solo quando s'incontrano nel bacio del cerchio. Ora il caffè è in silenzio, e non si sa se è fumante o meno, resiste e ascolta le nostre mani oltre il bicchiere, colpire lo schermo. Per un attimo vi siete scordati di esso. Ma rimane là accanto al vostro tablet, invisibile, a respirare con i polmoni della carta. E' quello stesso caffè invisibile che infrange il tronco del bicchiere a raggiungere le vostre labbra: "per poco esisto". E la lingua lo conferma. Posato il bicchiere sopra la scrivania, ancora una volta vi dimenticate di come esiste e perché.
Continuate a lavorare e la carta del bicchiere compie uno streaptease dell'assenza, dell'oblio e dell'attesa. Il caffè che non fa rumore mai, che parla solo attraverso i vestiti che macchia, che fa scenate di gelosia al cotone, che si ammazza per la lana, che perseguita il lino, che rapisce il cashmere! Intruso appariscente delle camice che macchia di prima mattina nella fretta e nel fremito del sorso. Il caffè che sa parlare solo attraverso le macchie. Assorbe il riflesso negandolo. Ma tutto questo non si vede perché il caffè takeaway non si trova sotto il cielo aperto di una tazza di porcellana, non si lascia guardare, non esiste più nel momento in cui viaggia con un bicchiere di carta. Esiste solo il bicchiere guardato da fuori, e più lo si gira da tutte le parti e più il caffè non c'è. La voce della macchia non appartiene più al caffè, prigioniera di una carta impermeabile, densa e spietata. Il caffè diventa carta che non macchia.
Più parliamo del caffè takeaway e più questo si perde nelle parole che non lo vedono, il bicchiere di carta non apre le sue porte alla presenza. Più lo si posiziona accanto alla mano che lavora e più il silenzio lo stringe. Il caffè takeaway non esiste più da ore, era già via, l'avevano già portato via, senza che io potessi portarlo con la parola takeaway, senza che potessi scartare il tronco o stropicciare la carta che non si buca.
Il caffè takeaway provate a pensarlo cosi: "Look at my face: my name is Might Have Been; I am laso called No More, Too Late, Farewell" (Edgar Auber)