Referendum No-Triv. La situazione a pochi giorni dal voto
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(Opinione) L'italia si avvicina al referendum in un clima di disinformazione e conflitti di interesse. Facciamo il punto della situazione.
Domenica prossima, il 17 Aprile, gli italiani sono chiamati alle urne per votare un referendum richiesto da alcune regioni: il cosiddetto referendum NO-Triv. In Italia i referendum possono essere solo di tipo abrogativo, non propositivo, perciò i cittadini dovranno esprimere un parere riguardo l'abrogazione di un comma che permette alle società petrolifere di estrarre idrocarburi fino al termine del giacimento e non fino al termine dell'attuale concessione, dalle piattaforme all'interno delle acque territoriali italiane. Sembrerebbe una questione meramente tecnica ma non è proprio cosi. Il dibattito scaturito nell'opinione pubblica, sebbene tardivo, ha comunque avuto delle interessanti ripercussioni nel paese, sia a livello sociale che politico. Ma andiamo con calma.
Come siamo arrivati a questo referendum?
In estrema sintesi, i piani energetici del paese degli ultimi 10 anni sono decisamente confusi e scritti male. Nel 2008 il governo Berlusconi puntava sul nucleare, ma tre anni dopo un referendum a seguito del disastro di Fukushima ha bloccato tutto. Nel 2013 il governo tecnico di Mario Monti, nella sua Strategia Energetica Nazionale, ha invece deciso di puntare sulle rinnovabili, sul gas e sulla raffinazione di prodotti petroliferi dimostrando semplicemente di non aver mai messo piede in Italia. Le aspettative per le rinnovabili sono state terribilimente sottostimate (nel testo si auspicava di arrivare nel 2020 al 35-38% del settore elettrico mentre pochi mesi dopo si era già al 37,5%) e le stime di idrocarburi estraibili estremamente sovrastimate. Oltretutto, nel 2013 il petrolio costava circa 110 dollari al barile mentre ora siamo a 40. Quando si dice avere fiuto.
La ciliegina sulla torta è arrivata dal Governo Renzi con il decreto Sblocca Italia: una legge quasi onnicomprensiva, con un testo lungo e complesso riguardante i più disparati temi, dai trasporti al dissesto idrogeologico, dal piano aeroporti a nuovi regimi di tassazione. Tante idee ma confuse insomma. All'interno di questa babele, per quanto riguarda lo sfruttamento degli idrocarburi il decreto dichiarava di pubblica utilità tutte le attività legate all'utilizzo delle risorse fossili togliendo potere alle regioni, favorendo l'esproprio delle terre da parte delle compagnie petrolifere e snellendo gli iter burocratici per cercare ed estrarre gas e petrolio.
Le regioni ed i comitati non sono stati a guardare e si sono organizzati in un coordinamento nazionale per chiedere un referendum con 6 quesiti. Dopo che la raccolta firme di Possibile, un partito nato dall'ala sinistra del PD attualmente al governo, non ha raggiunto le 500.000 unità necessarie, 10 consigli regionali ne hanno approvato il testo.
Il governo, giocando d'anticipo per evitare che il referendum diventasse un voto contro Renzi, appena un anno dopo aver approvato le norme in questione via decreto (modalità che la Costituzione prevede solo in casi urgenti), tramite il voto di fiducia nel maxi emendamento alla legge di stabilità del 2016 ha cancellato tutte le norme in questione. Tranne una. Che oltretutto è stata riformulata dalla Corte di Cassazione. Quindi in pratica si voterà su un quesito non rischiesto da nessuno. La fantasia italiana nella sua più magnifica realizzazione insomma.
Se state già ridendo, tenetevi alla sedia perchè siamo solo all'inizio.
Qual è il questito in ballo?
Il quesito in ballo riguarda una deroga, ma in Italia l'eccezione è regola!
Con questo ultimo dietrofront, rientra in auge la normativa precedente che vieta la ricerca e le estrazioni di idrocarburi entro le 12 miglia dalla costa. Naturalmente non per capriccio, ma per preservare ambiente ed ecosistema. Gli impianti inquinano, inutile negarlo. Il quantitativo di inquinanti non è altissimo vista la diluizione in mare a quanto pare, ma comunque tracce di idrocarburi e metalli pesanti son stati riscontrati nella catena alimentare. Il vero danno ambientale viene attuato in fase di ricerca. La tecnica dell'air gun è infatti devastante sia per i fondali sia per la fauna marina.
Gli unici che possono continuare ad estrarre, in deroga a questa legge, sono gli impianti già esisitenti. In teoria le compagnie petrolifere avrebbero potuto continuare a coltivare idrocarburi fino alla fine della concessione statale. In pratica lo Stato italiano gli sta regalando letteralmente i giacimenti e quindi la possibilità di stazionare in eterno.
Votando SI, viene abrogata questa norma e si torna alla legge precedente che proroga le estrazioni fino alla fine della concessione statale.
Votando NO, la legge che permette alle compagnie di estrarre fino alla fine di vita utile del giacimento non viene toccata.
Naturalmente questi regali, nel mondo civilizzato sono vietati e sono possibili solo in Italia. La normativa europea a riguardo infatti vieta questo uso delle concessioni e stabilisce che debbano "essere limitate in modo da evitare di riservare ad un unico ente un diritto esclusivo su aree per le quali la ricerca la prospezione e la coltivazione possano essere avviate in modo più efficace da diversi enti" (Direttiva 94/22/CE)
Se vincesse il NO o non si arrivasse al quorum lo Stato italiano andrebbe quindi incontro ad una procedura di infrazione europea.
Ma cosa sono le cosiddette "Trivelle"?
Nello specifico si tratta di 35 impianti, molti dei quali già fermi e prevalentemente dedicati all'estrazione di gas. I giacimenti in questione sono oltretutto scarsi, producono poco (si parla del 3% dei consumi di gas nazionale e l'1% di petrolio) e lo stato italiano non ci guadagna praticamente nulla. L'italia è il paradiso fiscale dei petrolieri. Le royalties sulle estrazioni sono le più basse del mondo: il 10% per il gas, il 7% per il petrolio (nulla confronto al 35% di alcuni stati africani e l'80% di Norvegia e Russia) e anche quando dovrebbero pagare, le agevolazioni fiscali, tramite franchigie altissime, sono tali che se l'impianto non va a pieno regime, l'azienda non versa un euro nelle casse dello Stato. In pratica gli idrocarburi presenti nel nostro paese sono letteralmente regalati alle compagnie di tutto il mondo. Eni in testa.
Come mai il governo si è impuntato su questo questito, spendendo oltretutto 300 milioni di euro per non accorpare il referendum con le imminenti elezioni comunali di Giugno o con il referendum costituzionale previsto ad Ottobre?
Si tratta quindi evidentemente dell'ennesimo favore alle compagnie petrolifere: la proroga fino a fine giacimento delle concessioni permetterebbe di tenere aperti gli impianti anche se intattivi o con una produttività bassissima, praticamente gratis. Tutto ciò eviterebbe l'effettiva chiusura e soprattutto lo smantellamento delle stazioni che ha costi elevatissimi. Bonifica e decommissioning sono la bestia nera delle compagnie di estrazione. Attività ingegneristiche altamente rischiose e complicate ma soprattutto onerose. E' sicuramente più facile lasciare i rubinetti al minimo ed abbandonare le piattaforme alla ruggine e alle intemperie piuttosto che smontarle.
Per ricordarci la connivenza tra Governo e imprenditoria petrolifera, naturalmente ci è venuta incontro la ministra per lo sviluppo economico Federica Guidi che si è recentemente dimessa dopo la pubblicazione delle intercettazioni che la inchiodano mentre garantisce il passaggio di un emendamento di favore al suo compagno Gianluca Gemelli, noto imprenditore nel campo, guardacaso, petrolifero. Quando si dice il caso!
Le ragioni del No
Chi invita a votare No lo fa principalmente per motivazioni economiche. Lo spauracchio delle ricadute sui posti di lavoro sono l'argomentazione più usata senza tenere conto che in verità non c'è nessuna ricaduta sulle aziende petrolifere: al momento del contratto sapevano che non avrebbero potuto sfruttare il giacimento fino a fondo, quindi i conti non subiranno variazioni. Oltretutto l'attività estrattiva è pressochè quasi totalmente automatizzata e le ricadute occupazionali sono bassissime. Per assurdo, creerebbe più lavoro lo smantellamento delle piattaforme. In aggiunta, la principale compagnia italiana di estrazione idrocarburi, l'ENI, sta concludendo lauti affari in Libia e in Iran e nonostante il costante calo dei consumi di gas e petrolio degli ultimi anni, se la cava sicuramente meglio delle sue omologhe d'oltreoceano.
Gli impegni di Parigi
Appena quattro mesi fa, nel dicembre 2015, l'Italia ha sottoscirtto l'accordo di Parigi, assieme ad altri 194 paesi. Nel testo ci si impegna ad attuare tutte le possibili soluzioni per mantenere l'aumento della temeperatura media al di sotto dei 2 gradi centigradi. Per far ciò è assolutamente necessario ridurre il consumo dei combustibili fossili nel più breve tempo possibile e di evitare di estrarre l'82% del carbone, il 49% di gas naturale e il 33% del petrolio che già sappiamo di avere.
Abrogare l'ennesimo favore alle lobby petrolifere significa quindi provare a restituire un minimo di dignità ad un paese che ormai l'ha persa da tempo.
Perchè in Italia non cambierà nulla?
Come al solito sarà estremamente difficile che il quorum del 50% venga superato. Il menefreghismo e lo scettisicmo verso il lavoro della società civile (a questo referendum hanno lavorato tutte le associazioni ambientaliste italiane oltre Greenpeace, Legambiente, WWF) è un mostro difficile da combattere. Il partito dell'astensionismo italiano in 60 anni non ha nemmeno capito la nobile intenzione dei padri costituenti quando hanno indetto lo strumento del quorum: un mezzo per evitare che una piccola minoranza potesse abrogare le leggi senza coinvolgere la maggiorparte della popolazione al tempo contadina. Tuttora l'astensionismo ai referendum è semplicemente un vile rifiuto del dibattito democratico ed una soluzione comoda per passare la domenica fuori porta. Se uniamo anche a tutto ciò il palese boicottaggio dei membri del governo e dei media a loro vicini, si prospetta una lotta all'ultimo voto.