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Raphael Gualazzi: filologo del jazz o animale da palcoscenico?

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Ipnotizzato dal jazz quasi come un geek lo è davanti all'ultima novità tecnologica, Raphael Gualazzi, 30 anni, timido cantautore italiano che il settimanale tedesco Die Zeit ha definito "la sintesi perfetta tra Paolo Conte e Jamie Cullum", è in grado di trasformarsi in un folle e indemoniato istrione quando sale sul palco.

In queste settimane sta portando in giro per l'Europa il suo ultimo lavoro, "Reality and Fantasy". Cafebabel.com lo ha incontrato a Parigi poco prima della sua serata al New Morning.

Quando arriviamo, circa mezz'ora prima del concerto, fuori dal locale c'è già la fila. Molti gli italiani, ovviamente, ma non solo. Sono tutti in attesa del giovane artista di Urbino che, grazie alla vittoria a Sanremo Giovani e all'ottimo secondo posto all'Eurovision Song Contest, ha visto salire alle stelle la sua popolarità. Eppure, quello che incontriamo in un bar poco lontano dal New Morning, intento a fumare con discrezione la sua sigaretta del dopo cena, non ha per niente l'aria di una star. Anzi. Lo invitiamo a sedersi con noi e a bere un bicchiere. Lui rifiuta categoricamente: "Non bevo mai prima di un concerto", dice con la voce vellutata e lo sguardo timido, ma sincero. Altrettanto schiettamente, quando gli parlo del suo successo alla kermesse europea, mi risponde che "non ne conosceva neanche l'esistenza, visto che l'Italia non vi partecipava da 14 anni", che è stata solo un occasione per far conoscere il disco al quale aveva lavorato con tanta dedizione e che non ha mai creduto nel carattere competitivo di queste manifestazioni. 

Agli osservatori più raffinati, Raphael è sembrato piuttosto un pesce fuor d'acqua, troppo elegante per quel festival di musica trash: gli chiedo cosa ne pensa, ma su questo preferisce non commentare. Aggiunge solo che per lui la vera opportunità è stata quella di poter fare delle jam session dietro le quinte con gli artisti stranieri: "vedere gli olandesi 3JS cantare Dino Crocetti (in arte Dean Martin, ndr) è stato fantastico".

Il jazz ha sangue italiano

Insomma, la musica prima di tutto. Colgo subito il suo stile serio e appassionato, nonché il suo amore viscerale per il jazz. Così, essendo intimamente convinto che in Italia questo genere musicale sia meno apprezzato che altrove, provo a chiedergli il perché. Ed ecco che il "professore" sale in cattedra e mi spiega che il nostro Paese è molto più legato al jazz di quanto non si possa pensare: "In pochi sanno che una delle prime registrazioni della storia del jazz è stata fatta da degli italiani sbarcati in America, più precisamente dall'orchestra di Nick La Rocca, agli inizi del secolo, e che secondo Jelly Roll Morton (uno degli inventori del piano jazz, ndr) il jazz derivava da una quadriglia siciliana". Il ragazzo ne sa, penso. Per lui la tradizione è importante, e, di conseguenza, sono importanti quei “filologi” della musica che si impegnano a custodirla "come dei frati medievali" e a tramandarla, pur non rinunciando ad innovare. E' in questa categoria che Raphael include gli artefici del rilancio del jazz in Italia: da Stefano Di Battista a Sergio Cammariere, da Paolo Conte a Stefano Bollani, che, appunto, è riuscito recentemente a portare il jazz in televisione con la sua nuova trasmissione "Sostiene Bollani".

Lui in quel gruppo non ci si mette: "Non ho la pretesa di definirmi un filologo", dice, ma piuttosto un artigiano della musica, un'arte che ha curato fin da quando era piccolo, fin da quando si divertiva a riprodurre i suoni che ascoltava. Il suo legame con la tradizione jazzistica degli inizi del Novecento e la sua voglia di riportarla oggi sul palco affinché non venga dimenticata, è però innegabile. Non solo per via del look retrò con cui spesso va in scena, ma anche a causa dell'emozione che lo tradisce quando ripensa a quegli anni “isterici” o quando racconta di quanto sia stato divertente musicare dal vivo con il piano i film di Charles Bowers.

Istrione

In effetti, più che il tavolo delle interviste, il suo regno sembra essere il palcoscenico. Quando si siede davanti allo strumento, circondato dai suoi musicisti, sembra essere posseduto dal demone della musica: stupisce e trascina il pubblico scorrendo come un funambolo impazzito sulla testiera, battendo i piedi a tempo come un forsennato, cantando con il suo personalissimo stile sia in inglese che in italiano - perché come ci dice "la buona musica suona in tutte le lingue del mondo". Serve vederlo sul palco per capire che "da quando avevo 14 anni sapevo che avrei fatto il musicista e nient'altro". Nonostante la crisi, mi confessa, credere in ciò che si fa, prima o poi paga, anche se capita, "come invece a me è successo, di non riuscire a sbarcare il lunario”. La chiave del successo è “lavorare sodo, perché la musica è un percorso che non finisce mai. La fortuna non si trova per strada, ma se la si guadagna con il sacrificio", dice convinto. E noi, gli crediamo.

Foto: per gentile concessione di Raphael Gualazzi; video: Youtube